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Seminarono panico di eccitata allegria: Mariposa@Bar Wolf (BO) 22/11/07

mariposa02.jpg Bar Wolf, Novembre a Bologna. Forse è colpa del freddo ma, accidenti, la sala è piena.
Abbiamo prenotato il tavolino decisamente in ritardo, quindi i nostri nomi sono nella lista “ripescabili causa disdetta”: che Dio benedica “Alberto x 2”, che non arrivando (o giungendo tardi al locale) ci cede i posti, a sua insaputa.
Siamo seduti vicinissimi al palco, che oggi, è fitto di strumenti. I Mariposa non si fanno aspettare troppo, e salgono sul palco facendosi spazio nella piccola sala fittissima di giovani e meno giovani.
I loro primi (cortissimi) passi su quel labirintico palco pieno di trappole mortali (cavi, strumenti appoggiati uno sull’altro ed aste per i microfoni) preparano il pubblico all’ingresso in un mondo quasi circense.

Il look dei sette giovani è emblematico: sul palco si vedono una maglia viola con sfumature psichedeliche, una camicia a quadrettoni e bretelle rosse a reggere le braghe, maglia attillata rossa con tanto di paillette. Ma c’è anche sobrietà in alcuni, perché effettivamente i Mariposa non hanno la necessità di stupire con abbigliamenti sgargianti avendo carte ben più valide.
Il suono arriva e non tarda a combinarsi ai colori dei vestiti, ai riflessi delle luci sugli strumenti, ai movimenti del cantante in un caleidoscopio musicale che può solo stampare il sorriso sul viso di tutti, sopra e sotto al palco.
La musica dei Mariposa scompone tutti i generi e li riassembla con il proprio marchio di fabbrica un po’ cantautorale, un po’ bambinesco, impegnato ma sorridente, come chi li sta ascoltando.
Amo osservare le espressioni delle persone ai concerti, scrutarne le reazioni.
C’è stupore, e c’è tanta gente, per la piccola sala è indubbiamente tantissima gente, e le bocche sono davvero aperte, e gli applausi generosi.
Sarà che i Mariposa sono simpatici per natura (il cantante ha esordito annunciando il suo problema intestinale che potrebbe influire sull’esito del concerto, in pericolosa alchimia con una costretta sobrietà), ma sarà pure per il loro suono assurdo che riescono ad impressionare il pubblico!
Il gruppo porta al Wolf un bagaglio molto ampio contenente ben nove lavori discografici all’attivo, prodotti con indipendenza ed audacia, che vedono la luce nel 1998 con il primo demo L’arco di gesso e terminano nel 2007 con Best Company (la famosa etichetta Trovarobato). Quest’ultimo è un album interamente di cover, di vere cover: pezzi dei King Crimson, De Andrè, Gaber, Beatles ecc. reinventate, sconvolte e ricomposte, come solo i Mariposa sanno fare.
Il concerto corre sulle tortuose strade dell’originalità fatta a collage: passare dal funk al rock fumoso e psichedelico, dal progressive al cantautorato, dall’elettronica ad un canto quasi teatrale.
La voce si perfeziona di canzone in canzone, il suono si fa sempre più unico e inscindibile: incredibilmente pieno a tratti, mostruosamente scarno e spaesato in altri momenti.
Tutto è un sali e scendi colorato, in cui ogni pezzo è composto da più realtà diversissime, che si fondono per mezzo di suoni inusuali e dal carattere quasi infantile.
Una peculiarità dei Mariposa è la genuinità. Alcuni scorci di concerto sembrano partoriti da un angolo di ricordo, qualcosa che eravamo. Il segreto sta nel passato, forse nell’infanzia. La genialità di alcuni arrangiamenti è talmente pura da far pensare ad una mente sgombra da vere influenze, in perfetta coordinazione con una meravigliosa capacità di citare tutta quella musica che a loro piace ed affascina.
Il risultato è quindi una musica che gioca con i “grandi”, ma vuole rimanere a guardare il mondo dal basso, da un’ottica speciale e privilegiata.
Dal basso la prospettiva è talvolta incantevole, e capace di svelare dettagli impensabili che da lì paiono enormi, schiacciandoci con la loro enorme massa, ci occludono la vista, fino a quando ci perdiamo nel “rito del tè”. E’ strepitosa la cover di Oily way / outer & inner temple (Gong) in cui il funk rincorre il progressive e viceversa. Al termine di essa, esausto ed avvolto da un esoterico richiamo (“a cup of tea, a cup of tea, a cup of tea…”) Enrico Gabrielli (già Afterhours e Le Sagome di Morgan) accetta il tè offerto da Alessandro Fiori (voce e chitarra anche negli Amore) che ha tra le mani una teiera che porge al primo con un fare rituale. Il tè apre la mente a visioni psichedeliche che accompagnano il brano in un dolce ma combattuto abbandono.
La tensione si mastica, e pure l’amata birra al mio fianco diventa un semplice soprammobile di fronte ad uno spettacolo tanto potente.
I Mariposa sono bravissimi a sapere quanto bisogna calcare la mano, e quando è necessario dare sfogo alle valvole, perchè le menti di chi ascolta diventano come pentole a pressione.
Il miglior modo per alleggerirsi è canticchiare spensierati e sorridenti pezzi come Rimpianti a gas (“l’areoplano vola lontano, il treno è più vicino e suona il freno…”), incalzati da un ritmo netto e “sballonzolante” che non può fare altro che liberarci ma tenendoci stretti ad una dimensione quasi ludica (“se solo potessi passare dal VIA, ogni volta che vado in camera mia…”).
I Mariposa sono inoltre graffianti e provocatori con una canzone che ha come tema le violenze che i bambini della scuola elementare di Rignano Flaminio (Roma), che purtroppo tutti ormai conosciamo, raccontano ai genitori e agli inquirenti.
Il risultato lascia sgomenti, in una via di mezzo tra reale protesta e parodia dell’informazione che ci viene propinata, il tutto condito sempre con un suono mai greve, mai serio, ma sempre leggero e “ingenuo”. La genialità dei Mariposa, in questo caso, sta proprio nel ribaltamento della “forma”, lasciando intatto il messaggio. Frasi presenti nel testo della canzone che narrano in prima persona l’essere accompagnati dalla maestra mano nella mano in luoghi oscuri dove i grandi vogliono giocare, colpiscono più a fondo in quel momento, accompagnate da musica spensierata e “ingenua”, piuttosto che nei telegiornali.
Il gruppo sorprende per tecnica ed affiatamento: più che componenti di una band sembrano sette amici universitari che convivono sul palco. L’affiatamento e la complicità sono di quelle tipiche che possono nascere solo in un luogo stretto e co-stretti alla vicinanza. Dato il loro numero di elementi e la spropositata quantità di strumenti, gli “spazi vitali” di ogni componente della band sono limitatissimi . Spesso si vedono braccia incrociarsi l’una con l’altra, strumenti passati di mano in mano, cavi aggrovigliati ai piedi.
Al termine del concerto Enzo Cimino (batteria e percussioni), Alessandro Fiori (voce e teiera), Enrico Gabrielli (fiati), Gianluca Giusti (tastiere), Rocco Marchi (chitarra, basso, moog), Michele Orvieti (tastiere e “psichedelia”), Valerio Canè (basso, armonica, voci e theremin) cercano di farsi spazio tra il fitto pubblico, “guadagnandosi le docce”.
Mi viene in mente un brano di un romanzo: “Erano zingari nuovi. Uomini e donne giovani che conoscevano soltanto la loro prima lingua, begli esemplari con pelle lucida e mani intelligenti, i cui balli e musiche seminarono nelle strade un panico di eccitata allegria, con pappagalli di ogni colore che recitavano romanze italiane, e la gallina che faceva un centinaio di uova d’oro al suono del tamburello, e la scimmia ammaestrata che indovinava il pensiero, e la macchina molteplice che serviva allo stesso tempo per attaccare bottoni e per abbassare la febbre, e l’apparecchio per dimenticare i cattivi ricordi, e l’impiastro per perdere il tempo, e un migliaio di altre invenzioni, così ingegnose e insolite che Josè Arcadio Buendìa avrebbe voluto inventare la macchina della memoria per poterle ricordare tutte. In un istante trasformarono il villaggio. Gli abitanti di Macondo si trovarono improvvisamente perduti nelle loro stesse strade, storditi dalla gran folla della fiera.” (tratto da Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, Ed. Mondadori).
Forza Musica! (Foto by Emanuele Gessi)

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Un solo commento

  1. Emanuele, m’incanto tutte le volte.

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