In questi giorni in cui siamo costretti a restare a distanza abbiamo raggiunto in video chiamata Flo, una delle voci più interessanti del panorama musicale attuale a Napoli e in Italia, per una lunga chiacchierata sui riflessi del lockdown sulla musica e sui suoi progetti presenti e futuri.
La voce, la consapevolezza vocale, so che tieni dei workshop a riguardo, anche su Instagram hai pubblicato dei brevi tutorial di esercizi per la voce tipo il lip roll, funzionano veramente?
Certo che funzionano! Sono tutte cose che esistono da tempo, testate e garantite.
Scherzavo, parlaci di questa cosa.
Quando ho cominciato a insegnare, facevo le classiche lezioni private, soprattutto ad adolescenti che si approcciano al canto. Poi questa cosa con il tempo l’ho messa da parte, all’inizio quello era in realtà il mio lavoro “stabile” e l’attività dei concerti non aveva la continuità di adesso. Poi le cose sono cambiate e non ho avuto più il tempo per seguire tutti. Allora ho deciso di dedicarmi alla didattica di gruppo e dare vita a questa bella avventura dei seminari dedicati alla voce in giro per l’Italia. Che poi si sono rivelati occasioni belle a doppia mandata, perché fai esperienza vocale e al contempo osservi un sacco di persone. Gruppi di 15-20 partecipanti che sono lì per i più disperati motivi: quello che la moglie l’ha mollato e aveva questo sogno di cantare da 50 anni, oppure l’attore che si deve preparare per dei provini. I corsi per me diventano un motivo per guardare gli altri, ascoltare il racconto delle loro storie, delle loro vite.
Un piccolo osservatorio sul mondo.
Esatto, e quindi è una cosa che mi piace, che funziona. Che poi la mia “specialità” col tempo è diventata quella di insegnare agli attori, non so come ma questa cosa si è strutturata così. Perché io non insegno a cantare. Non si può insegnare a cantare, si può insegnare la tecnica vocale e poi uno deve usarla per dire qualcosa di interessante, si spera.
Questo però è un discorso che vale un po’ per tutta la musica.
Anche per la scrittura, no? Non è che tutti noi che sappiamo mettere la penna sul foglio siamo scrittori, lo scrittore è anche cosa dici, mica solo come lo dici.
Ora passiamo al contesto generale, partendo dal punto di vista di voi musicisti. Hai partecipato a Vola colomba nell’arrangiamento di Claudio Gnut, ma poi hai anche annunciato un altro progetto, con una canzone inedita, Furtunata, sul tema delle adozioni. Vuoi parlarcene? E cosa può fare la musica in questo momento?
Con Claudio c’è un rapporto personale, di grande stima reciproca. Mi ha proposto di fare questa cosa e io ho accettato, sebbene dall’inizio della quarantena non abbia mai fatto dirette, né concertini da casa mia. Ho accettato perché era una cosa legata a una precisa finalità, cioè raccogliere dei soldi per l’ospedale, quindi andava benissimo, erano tutte persone che conoscevo e stimavo, quindi mi è sembrato bello. Per quanto riguarda Furtunata, non si tratta di un progetto legato alle adozioni, solo la canzone parla di questo, e fa parte di un progetto speciale (non appartiene al mio prossimo disco) a cui sto lavorando da 2-3 anni, nei “ritagli di tempo” che ho rispetto al mio progetto principale che tutti conoscete e che al momento prevede un disco finito, di cui sono molto contenta. Mi piace tantissimo, siamo riusciti a finirlo una settimana prima della quarantena, quindi per un pelo. Abbiamo suonato, lo abbiamo registrato e sta lì, stiamo facendo il mastering e quando ci consentiranno di fare i concerti, se mai ritorneremo a fare concerti, lo faremo uscire, perché è chiaro che farlo uscire adesso non avrebbe senso. Apparteniamo a una categoria nella quale il lavoro che fai sei tu a doverlo presentare, se non puoi andare a suonare non puoi promuovere il tuo disco e praticamente lo butti via.
Spero di vederlo presto.
Speriamo anche noi!!!
Infatti, questo ci porta alla seconda e più scottante domanda, quali sono i riflessi del lockdown sul mondo della musica e come ne potremo uscire?
Se ne potremo uscire.
Concretamente ci sono soluzioni, strategie? Ho visto appelli lanciati da persone che tu conosci, tipo Marcello Giannini, Ernesto Nobili; hanno fatto anche un video per chiedere sostegno. In questa fase ognuno ha assunto posizioni diverse, hai detto prima di non aver fatto dirette streaming, lo stesso Marcello si è chiuso in silenzio e molti altri si pongono in questa maniera. Per ora state facendo così ma poi?
Allora, la situazione è molto complessa. Quando è iniziata la quarantena non ho fatto dirette streaming perché penso che siano strumenti qualitativamente inadeguati, che non mi mettono nella condizione di esprimere quello che voglio esprimere: una qualità, una ricerca, una cosa che non deve mai essere scontata o fatta tanto per. Mi conosci e sai quanto curo i miei concerti, gli arrangiamenti, il live, quanto credo che la band sia una parte importante, tutta una serie di cose che possono sembrare delle cavolate per gli altri, ma sulle quali ho costruito tutta la mia vita. Se le butto nel cesso, butto nel cesso 15 anni di lavoro! Che vuol dire che ci mettiamo a fare le dirette? Le dirette possono andar bene come momento di condivisione di un lavoro, come parte della promozione sul web, ma un concerto no. Le istituzioni devono capire che un concerto non si fa da casa, si muove il culo, si istituisce un biglietto anche simbolico, come quando si va in pizzeria e si paga per la pizza. Abbiamo il dovere di difendere quello che facciamo e quello in cui crediamo anche e soprattutto davanti alle istituzioni che ci trattano sempre come dei saltimbanchi. Serviamo in campagna elettorale, serviamo per riempire la piazza, serviamo a fare numero nei contesti dove tutti gli altri vengono pagati e all’artista si offre visibilità. Fosse l’Eurovision allora ci sto, ma non è questo il caso. Credo sia arrivato il momento per tutti di farsi rispettare. Io mi nego in moltissime situazioni e ne sono felice. Lavoro gratis se è per una giusta causa o se chi me lo chiede ha rispetto per me e dà valore a quello che faccio, altrimenti no.
È un no, irrevocabile? Nemmeno una diretta?
Noi dobbiamo fare i seri. In questo momento ancora di più. Non può essere la notte in cui tutte le vacche sono nere, “allo’ mo ognuno che arape a vocca, canta”. La musica è di tutti per carità e tutti la possono fare, però noi dobbiamo essere seri e far capire alla società che ci sono delle differenze, che abbiamo studiato, abbiamo speso soldi, abbiamo speso tempo, denaro, fantasia. E purtroppo se dici sempre si, se non ti proteggi, se ti confondi nella marmaglia, ti confondono anche gli altri. Se proprio vogliamo dare un contributo c’è la spesa solidale, i vicini anziani che non possono uscire a fare la spesa. Possono esserci tante modalità in tal senso, non si deve per forza prendere la chitarra per dare un contributo. Questo è quel che penso io, ma ognuno è libero per fortuna di fare come crede.
Magari non si sono subito resi conto di quello che stava accadendo e di quanto sarà prolungata nel tempo questa situazione.
Si è vero, ma penso anche una cosa: non ci si è resi subito conto perché non ci si è resi conto mai. Nel senso che io non credo sia un caso se alcuni musicisti riescano a gestire meglio la loro professione … e mi ci metto anche io dentro. È perché si impara a dire no. È la cosa più bella che un professionista possa fare nella vita, il poter dire “grazie questa cosa non fa per me”, ti dà un senso di libertà grandissimo. Magari a diciassette anni andavi a suonare da qualche parte e ti davano un panino e una Coca-Cola e tu eri felice e dovevi dire per forza sì, perché dovevi fare la gavetta, dovevi fare esperienza, ma poi capisci che c’è un momento in cui puoi dire anche di no. E non devi aver paura di dire no, perché magari quel politico che ti ha richiesto se poi organizza la “Festa della patatina e della polpetta” non ti fa suonare, alla fine si tratta di quello, accettare per paura di essere estromessi da un giro. Io ho detto sempre di no se una cosa non mi stava bene e ho sempre lavorato, anche perché il mondo è grande e certe dinamiche di favori e piaceri devo dire che non esistono ovunque.
Passiamo al processo creativo. Hai spesso detto che a ti capita di avere ispirazioni improvvise, magari mentre sei per strada e registri una frase o una melodia sul telefonino. Il tuo è un approccio alla composizione esclusivamente vocale, oppure ti accompagni con qualche strumento mentre lavori ad una melodia?
Ho sia una chitarra che un pianoforte, ma in realtà il rapporto è 80% – 20%.
Quindi nasce tutto da te, pratichi una composizione corporea.
Sì!
È allora fondamentale il contributo dei musicisti che suonano con te. Hanno un ruolo non di semplici accompagnatori, ma partecipano allo sviluppo di un tema.
Diciamo che in questo è fondamentale il mio rapporto con Michele Maione. La stesura del brano la facciamo quasi sempre insieme, poi in fase di arrangiamento ogni musicista dà un contributo in base all’esperienza che ha del proprio strumento. Quindi la composizione parte da me, si sviluppa tra me e Michele e si conclude con tutto il quartetto.
Michele ha preso un po’ il posto che è stato di Ernesto Nobili nei primi due album, che sembrava avere questo ruolo di trasformazione dei tuoi temi, delle tue intuizioni vocali in canzoni. Avverti una sorta di passaggio di testimone?
Stiamo parlando di due grandi personalità, molto diverse una dall’altra. Ognuno di loro valorizza di me una parte e spero di aver fatto e fare anch’io lo stesso con loro. Se però ti riferisci al ruolo di direttore musicale ti dico di sì. Non è una cosa che posso e voglio fare io. Una persona che sia responsabile di tutta la parte musicale, diriga le prove, controlli che tutto funzioni, che gli arrangiamenti siano rispettati per me è indispensabile, sennò s’impazzisce. Michele è una persona di cui mi fido, sia nella vita che nel lavoro, oltre alla bravura musicale è una persona limpida, lucida, solida, non è uno che si mette a “sfrenesiare”è molto affidabile.
Non lo avrei mai detto a giudicare dai suoi assoli.
Proprio perché è così affidabile poi si sfoga quando suona.
Lo facevo più un tipo alla Keith Moon. Parallelamente al tuo quartetto ti sei dedicata a vari side project, un duo live con Davide Costagliola, una bella versione di Scalinatella con Federico Luongo, ma anche “Storia della mia ansia” insieme a Daria Bignardi.
In realtà questi non li considero esattamente come dei miei progetti, le considero collaborazioni, esperimenti, ospitate con amici che ti invitano a prendere un caffè. Non li definisco progetti perché non hanno la dovuta consuetudine e il necessario lavoro di produzione che implica un progetto strutturato. Per “Storia della mia ansia” è diverso perché c’è una produzione, una continuità, una pratica. È una bellissima esperienza in cui ho coinvolto anche Michele Maione. Ad ogni modo non li tratto come miei progetti nel senso che non stanno sulle mie spalle, non sono io che la mattina mi sveglio e ci devo pensare. Devo solo essere all’altezza.
A proposito di contesti. Sei l’autrice di Spritz e rivoluzione, nel primo album di Capitan Capitone, un contesto di cui hai fatto inizialmente parte, però poi hai scelto di non cantare la canzone. È stata una dichiarazione di autonomia rispetto a un collettivo affiatato ma eterogeneo oppure era una scelta legata esclusivamente al brano, senza alcuna implicazione? E da questo raccontaci un po’ del tuo rapporto con Daniele Sepe.
Diciamo che nel contesto di Capitan Capitone non ci sono proprio entrata, ho scritto quel pezzo con Daniele in auto, come a volte può capitare. Il fatto è che in quel periodo era uscito il mio disco, e dei propri dischi solo l’autore conosce il peso. Anche se condivido coi musicisti l’esperienza del palco, il peso di portare avanti un progetto, quindi parlarne continuamente, ricordare alla gente che il progetto esiste, scrivere cose nuove, contattare un produttore, è un peso che ricade su di me, è il mio lavoro da quando mi sveglio la mattina a quando vado a dormire. Allora pensai, se mi metto adesso a fare un’altra cosa, come questa di Capitan Capitone, per quanto divertente, affascinante, assieme a tanta gente che mi piace e con cui siamo amici, come faccio a dedicarmi a Il mese del Rosario? Finirà che Daniele avrà la meglio, perché e uno che pretende e pretende molto dai musicisti coinvolti nei suoi dischi e nei suoi concerti. Pensavo cose del tipo “se capitano due concerti nello stesso giorno come faccio?” quindi è stata proprio un’implicazione di tipo pratico. Mi è costato. Sapevo che Daniele col primo Capitone avrebbe lavorato tanto, però come dicevo prima ne ho detti molti di no. Quindi nessuna divergenza artistica, anzi, Daniele posso solo ringraziarlo, perché penso che la cosa più difficile sia avere dei maestri, avere qualcuno che ti insegni le cose veramente. Quando cominci a lavorare con un’artista famoso è difficile che ti dica “sei bravo, vai tu a fare questa cosa”. Al contrario, capita sempre che se sei bravo ti vogliano tenere in panchina, perché poi diventi un collega, di più: un concorrente. Con Daniele non ho mai avuto questo problema. È molto severo, a volte anche in maniera apparentemente ingiustificata, tanto che suonando con lui ci dicevamo “vabbè però, mamma mia, per una nota … per un accordo …”. Però devo ammettere che se non avessi incontrato quell’esperienza, quella pretesa, non avrei imparato niente, perché nessuno ti insegna, nessuno ti dice “fai così e diventerai più bravo”.
Il jazz è un’influenza significativa per la tua preparazione musicale, sei stata sul palco con Bollani e questo potrebbe rappresentare una consacrazione in tal senso, ma direi che è una componente meno evidente nella tua musica rispetto al fascino che subisci dal Sud America, dal Messico di Chavela Vargas al Brasile di Milton Nascimento, dove hai anche suonato. Raccontaci di queste influenze musicali e del tuo rapporto col pubblico, in particolare all’estero.
Se la mia musica si può definire jazz è solamente perché è inclusiva, come può essere il jazz, non una maniera, ma una miscela di linguaggi, dai quali è nato il jazz. Mi piace includere, mescolare, prendere quello che mi piace e fonderlo, senza badare al genere, blues o jazz che sia, cosa di cui non mi importa più di tanto. Il rapporto col pubblico è bellissimo, sia in Italia che all’estero, stare sul palcoscenico è la cosa più bella della mia vita. Detesto cantare in studio e detesto registrare i dischi. Mi piace stare lì e sentire i musicisti che suonano, dare indicazioni “qua sì, qua no”, ma poi mi annoio da morire quando arriva il mio turno di indossare le cuffie e cantare. Infatti per l’ultimo disco abbiamo registrato tutto in presa diretta, ho preteso di avere un set uguale al live, così ho fatto le voci insieme agli altri. Trovo che sia sterile che ognuno suoni la sua parte separatamente, dobbiamo suonare insieme, altrimenti che suoniamo a fare. Ho deciso che non farò mai più dischi che non siano registrati live. Il rapporto con il pubblico per me è fondamentale, è l’unica cosa per me problematica in questo momento, non mi manca niente, non mi manca uscire, andare al ristorante, davvero non mi pesa stare in casa, ma mi manca il non poter cantare davanti al pubblico che viene ai miei concerti. Quella è la cosa che mi manca di più e mi rende triste.
Mi dispiace, ma non possiamo chiudere con questa frase…
Sì, infatti vorrei tornare sul discorso legato a questo momento. Ben venga la nostra associazione, ben venga far sentire la nostra voce, superando vecchie e inutili polemiche: resettiamo tutto questo. È inutile scontrarci ogni volta, adesso prendiamoci le nostre responsabilità. Dobbiamo ammettere che la maggior parte di noi ha contribuito a creare una confusione nel nostro ambiente (chi lo ha fatto lo sa, inutile fare nomi), abbiamo contribuito ad avere poca dignità nel nostro lavoro, consentendo degli equivoci totali, condizioni di lavoro incredibili, inaccettabili, di cui nessuno si prende la responsabilità, scaricando le colpe di volta in volta sul gestore, sul musicista o sulla SIAE, ma finalmente è arrivato il momento di smetterla. Tutti, musicisti, gestori, politici, istituzioni, adesso devono assumersi le proprie responsabilità. Dobbiamo far sentire la nostra voce e per farlo dobbiamo essere seri. Questa voce è una voce che dobbiamo far sentire sempre. Nell’emergenza deve essere un grido di consapevolezza. La presa di coscienza e il riconoscimento della nostra dignità professionale, “nuje nun vulimme ‘a carità“, non vogliamo aiuti e sussidi, anche se in questa fase sono indubbiamente importanti per molti …
… infatti, molti musicisti a te vicini lo stanno chiedendo …
Assolutamente! Chi è che non ha bisogno di lavorare? Oggi nessuno sta lavorando. Conosco coppie di colleghi che oggi sono a casa senza lavoro e hanno figli da mantenere, rispetto a loro mi sento fortunata a non averne in questo momento. Io non mi lamento per natura, sebbene io viva solo del mio lavoro e non abbia altre rendite. Quindi, al di là di aiuti e sussidi di cui c’è ora bisogno, quello per cui ci dobbiamo battere è un riconoscimento culturale nella società, come avviene per tutti i nostri colleghi in Europa. Così potremo ripartire. Dobbiamo evitare la confusione, ad esempio, trovo che uno che fa due concerti all’anno non sia un musicista, magari un artista, il più grande degli artisti, ma non un musicista di professione. Riuniamoci e non trasformiamo anche questo momento in un’occasione di egocentrismo, un’occasione di vanità, un’occasione per mettersi in evidenza.
Mettiamoci in evidenza facendo meno, facciamo la musica, facciamo le cose belle e facciamoci rispettare!
Ok, questo è un buon finale, in bocca al lupo.