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Colouring sky with ash: la vita e la musica di Elliott Smith

elliot460“Io non ho niente da dare alle altre persone”. A volte la bellezza si cela dietro storie tristi. L’intimità che sgorga da una lacrima, il brivido da un sorriso. La goccia di rugiada che, languida, scivola tra le navigate nervature delle grandi foglie verdi, di un verde dalla limpidezza che suggerisce il rigoglio delle facoltà vitali. Intensità e verità. La musica e la vita di Elliott Smith.
“Se lo chiamate scrivere canzoni, sembra una cosa di concentrazione calcolata e applicata: io non so fare musica così, non so sedermi e scrivere una canzone, vado dietro a delle impressioni, cose di un minuto”. Cappello di lana, t-shirt scolorita, felpa slabbrata, jeans strappati, vecchie scarpe da tennis logore. Il viso scavato dai segni dell’esperienza, la frangetta scombinata sulla fronte e quell’espressione così assorta, anonima e passeggera, contemplativa e attenta, persa nella tempesta serena dei propri pensieri. Gli occhi dolcemente chiusi e un sorriso effimero, tremante sulle labbra come un’onda che si infrange su aride rive; quella voce quasi sempre sussurrante, alta e fragile.

“La gente si dovrebbe togliere le scarpe prima di vedere Elliott suonare, è come miracolo, come se iniziasse a piovere al coperto. È come andare in chiesa, un’esperienza spirituale vera, un contatto con qualcosa di bello ed autentico, genuino e trascendentale”.
Il menestrello triste, l’emarginato, l’intellettuale, lo psicopatico, il depresso cronico, Mister Misery. Tutto e niente, tra stereotipo e verità. Elliott amava la semplicità e amava la vita. “In giro c’è troppa pressione sul culto del vincitore, del numero uno, se non mostri quella immagine di te, allora sei uno sfigato. E se ti lamenti del culto del successo, allora la gente pensa che tu stia esibendo il culto dell’emarginato, del ribelle. Le mie canzoni sono anche piene di spirito e di “vaffanculo”, che è un modo per essere ottimisti, ma la gente nota solo le cose tristi”.
Una soggettività in preda alla sensazione costante, quella che si cela dietro ogni cosa, ogni minimo particolare giornaliero. Non era credente, o meglio lo era a suo modo ma aveva paura dell’inferno. Sul braccio destro tatuata l’immagine di un toro, quel Ferdinand the Bull che, invece di combattere nelle arene rispondendo agli insulti dei matador, avrebbe preferito starsene a contemplare il profumo dei fiori (Ferdinand the Bull The story of Ferdinand – Munro Leaf 1936, trasformato in storia animata dalla Disney nel 1938).

So leave me alone
Steven Paul Smith, un ragazzo qualunque con una di quelle tante storie tormentate e troppo consuetudinarie. I genitori separati soltanto un anno dopo la sua nascita e il pessimo rapporto col compagno della madre, con cui vive a Duncanville (Texas). Un patrigno che non esitava a massacrarlo di botte. Le giornate rinchiuso nella sua stanza a suonare il piano e ad ascoltare i dischi delle motown e il flamenco, Nick Drake e il suo fingerpicking, Bob Dylan e le sue incantevoli parole, ma anche Kiss, Clash e Elvis Costello. Poi quella visita al padre a Portland e quel dono che gli aprirà il mondo dei sogni: la chitarra acustica. Tra le esperienze adolescenziali, le ragazze, le sbandate con gli amici, l’alcool e la marijuana, il trasferimento definitivo a Portland, il liceo e le prime esperienze nella banda della scuola e negli Stranger Than Fiction nascono le sue prime canzoni registrate su un 4 piste; era entusiasmato, incantato dalla possibilità di registrare cose in tempi diversi che poi avrebbero suonato simultaneamente. Nelle sue parole scene di vita reale di un ragazzo liceale, la monotonia della routine, i giri a Condor Avenue, esaltarsi per nulla, annoiarsi per nulla; il tormentato rapporto col padre adottivo (Some Song, No Confidence Man), ma anche l’angoscia che anticiperà i temi dell’ultimo Smith nella preghiera di Last Call: “like I was as good as she made me/ and I wanted her to tell me that/ She would never wake me”.
Inizia a farsi chiamare Elliott, Steven suonava da secchione. Fuori dal Texas si sente meglio, ma è una terra che non potrà mai dimenticare, incisa a inchiostro nero sul suo braccio sinistro.
Poi il college a Northampton, l’amicizia con Neil Gust (ritratto sulla copertina di Roman Candle), gli Heatmiser. Le passioni in comune e le giornate passate in giro per strada fino a tardi. Le stesse idee, la stessa rabbia, la stessa gioia, la stessa energia. Lo stesso sguardo da outsiders nei confronti della cultura e società americana. Le prime serate nei locali, il confronto con la gente, la piccola fama ma anche le prime realizzazioni discografiche ancora tanto legate al post punk e grunge (Dead Air, Yellow No.5, Coop and the Speeder). Laureato in filosofia delle scienze politiche, tornato a Portland, si giostra tra mille lavori, quali panettiere, spazzacamino, vigile del fuoco; vuole soltanto avere tanto tempo libero per la sua musica, quella più intima e personale che sente essere totalmente diversa rispetto a quella che suona negli Heatmiser; si sente inquieto e insoddisfatto. “Ero diventato un attore, recitavo un ruolo che non mi era mai piaciuto. Non potevo uscirne e mostrare da dove venivo”.

elliot03Burning every bridge that I cross to find some beautiful place to get lost
Una musicassetta, uno degli innumerevoli nastri incisi col suo misero 4 piste. La ragazza dell’epoca lo invia alla Cavity Search Records e quasi per magia ecco arrivare il contratto per il primo disco solista Roman Candle (1994), seguito soltanto un anno dopo dall’omonimo Elliott Smith, per la Kill Rock Star stavolta. Solo con la sua chitarra, Elliott canta delle immobili e tristi giornate trascorse ad ubriacarsi (Clementine), girovagando alla luce della luna imbottito di anfetamine (St.Ides March), finchè “you wake up in the middle of the night,/ from a dream you won’t remember, flashing on, like a cop’s light,/ you say she’s waiting, and I know what for/ the white lady loves you more” (The White Lady Loves You More); sussurra le ferite dell’abbandono (Driver All Over Town), la tragedia del suicidio, l’emarginazione e l’alienazione (Cristian Brother), la desolazione (Sweet Adeline) e la caduta libera nell’oblio. E ancora la rabbia di fuoco verso il padre adottivo e il proprio dolore: “I want to hurt him/I want to give him pain/I’m a roman candle/My head is full of flames” (Roman Candle), la necessità e la ricerca di silenzio nella solitudine (No Name 1). Sincerità e schiettezza nella semplicità disarmante di un minimalismo intriso di radicata malinconia. La vita con tutti i suoi risvolti psicologici. L’inizio di un cammino spirituale già oscurato dalle ombre delle possibilità perse, dalla caducità di speranze coltivate con cautela. “For me, the difference between folk and pop is that in folk there is a clear message in every song and there is usually a moral to the story. That’s fine but it’s not how I write. I like more “impressionistic” things, word pastings”.
Un ultimo album con gli Heatmiser, Mic City Sons (Caroline, 1996), che procurerà l’interessamento per la band di una major come la Virgin e l’amore con la bassista/tecnico del suono Joanna Bolme. Alti e bassi, momenti tormentati e difficili che turbano la sottile emotività di un Elliott che si rifugia a New York, in quella solitudine che trascina pensieri, rievoca sensazioni, attualizza emozioni, le rende vive; si impossessa dell’anima più profonda che ancora una volta sa scivolare candida tra le lisce corde di metallo. Dopo quasi un anno di lavoro Either/Or (anche il titolo di un’opera di Soren Kierkegaard) è come l’orchidea che nasce bianca e pura tra le tetre e fetide paludi. Un lavoro più oscuro, più intricato, più eterogeneo, che sa trasmettere emozioni in musica nella sua naturale spontaneità. Alla passione per il fingerpicking si aggiunge il crescente interesse per una base musicale più corposa. La malinconica Alameda è un disperato grido esistenziale. Between the bars è una dichiarazione d’amore cantata da una bottiglia di whiskey all’anima fragile del cantautore: “drink up one more time and I’ll make you mine/ keep you apart deep in my heart separate from the rest/ where I like you the best and keep the things you forgot/ the people you’ve been before that you don’t want around anymore/ that push and shove and won’t bend to your will/ i’ll keep them still”. La sensazione di svegliarsi alle 2:45 am in preda a quell’oscura disperazione che attacca ogni creatura mortale quando in lotta col sonno, prova a ignorare le smisurate crepe che squarciano la flebile facciata della vita. È come se la musica potesse dare una redenzione che le parole razionali non riescono a dare.

You can do what you want to, there’s no one to stop you
Tra il 1997 e il 1998 l’incontro col regista Gus Van Sant. Angeles, No Name 3, Say Yes, una versione orchestrale di Between the Bars di Danny Elfman e l’inedita Miss Misery entrano a far parte della colonna sonora di Good Will Hunting. Miss Misery è candidata all’oscar e Smith invitato ad esibirsi durante la serata di consegna dei premi. “Next door the TVs flashing/ blue frames on the wall/ It’s a comedy of errors, you see/ It’s about taking a fall/ to vanish into oblivion/ is easy to do/ and I try to be but you know me/ I come back when you want me t/o do you miss me, Miss Misery/ like you say you do?” Sembra ancora di vederlo intrappolato in quell’abito bianco con la sua umile chitarra acustica, a disagio, l’espressione assente, gli occhi profondi, rinchiuso nel suo mondo impenetrabile. “No, non l’avrei voluta vincere. Se l’avessi vinta l’avrei buttata nel cestino. Celine (Dion) invece la metterà sulla mensola del suo caminetto. Nessuno tra i milioni di spettatori era lì per me. Era bello il vestito vero? Era una abito che non potevo permettermi. È stato surreale, tutto un sogno, ma il sogno di qualcun altro. È stato così bizzarro, tipo andare su uno shuttle spaziale o camminare sulla luna o cose del genere, ma era tutto così falso e senza valore”. Il suo quarto album esce per la Dreamworks di Steven Spielberg nel 1998. XO è l’abbreviazione di “Kisses and Huges” (baci e a abbracci), quasi a prefigurare il saluto, ultimo, alla fine di una lettera. È l’album delle maturazione artistica e compositiva. La sua nuova vita a Los Angeles proietta luci e ombre sui brani. Gli arrangiamenti sono più elaborati con strumenti quali piano, archi, corni, basso e batteria che si intrecciano alla sua chitarra. Lontano dal minimalismo degli esordi, ancora in grado di donare emozioni come nessuno con quell’alone di sofferenza costantemente presente nella sua voce. I Didn’t Understand è straziante e commovente con le voci che si intrecciano sublimi nel tentativo di un uomo di smettere di amare. “You once talked to me about love and you painted pictures/ of a never-neverland/ and I could’ve gone to that place but I didn’t understand”. Il rimpianto per il passato e un amore che non funziona aleggiano sulle note di Sweet Adeline. L’alcool dilagante di Baby Britain e la stupenda Waltz 2:looking out on the substitute scene/ still going strong/ XO, mom, it’s ok, it’s alright, nothing’s wrong/ tell Mr. Man with impossible plans to just leave me alone/ in the place where I make no mistakes/ in the place where I have what it takes/ I’m never gonna know you now/ but I’m gonna love you anyhow”. Dal 1998 al 2000 cresce l’attenzione dei media. Lo intervistavano di continuo, lui si stropicciava le mani, fumava, e guardava da un’altra parte mentre rispondeva, sempre imbarazzato, distratto, talvolta irritato e a disagio. Nel 1998 Steve Hanft gira Strange Parallel, piccolo film che scava le vallate interiori dei brani di Elliott e le reazioni delle persone a lui vicine; la vita reale e quella interiore a confronto come due strani paralleli. Il film cattura quanto sia cambiata profondamente la sua vita dal 1996 e dall’intimo Lucky 3 di Jem Cohen. Nel 1999 la sua versione di Because dei Beatles illumina i titoli di coda di American Beauty di Sam Mendes. Quando pubblica Figure 8 nel 2000 è al culmine della fama. Il suo ultimo album continua la tendenza di XO, più vicino al pop che al cantautorato tanto in voga al tempo, con parti suonate più incisive e con più strumenti, più Beatles e Beach Boys che Beck, anche se non mancano fioche ballate acustiche capaci di riportare indietro ai primi lavori. Profondità ed eleganza in connubio nelle parole. La vita vissuta muovendosi tra le noiose e insignificanti scene di un film in slow motion (Can’t make a sound); i buoni propositi e il desiderio di felicità: “what I used to be will pass away and then you’ll see/ that all I want now is happiness for you and me” (Happiness). L’angoscia che ancora appesantisce le parole: “but I better be quiet now/ I’m tired of wasting my breath/ carrying on, and getting upset/ maybe I got a problem/ but that’s not what I wanted to say/ I’d prefer to say nothing/ I got a long way to go” (I better be quiet now). La cristallina sentenza Everything Means Nothing to Me.

It’s a comedy of errors, you see
Ma qui ha inizio la sua commedia di errori. Imbottito di farmaci antidepressivi e alcolici, si risveglia incosciente nel bel mezzo di una strada, prende parte a risse che non ricorda, compie gesti folli come saltare dagli scogli. D’improvviso si ritrova nel lettino di un ospedale psichiatrico della Florida, ricoverato per un paio di settimane. La sua idea di inferno. “Non sono un artista torturato e non c’è niente di sbagliato su di me. Ho soltanto avuto un cattivo periodo”.
“Yes everybody cares about you/ Yeah, and whether or not you want them to/ It’s a chemical embrace that kicks you in the head/ to a pure synthetic sympathy that infuriates you totally/ and a quiet lie that makes you want to scream and shout/ so here I lay dreaming, looking at the brilliant sun/ raining its guiding light upon everyone” (Everybody cares, everybody understand). Se il tour che seguì XO lo portò oltre i confini del mondo tra Europa, Giappone e Australia, Elliott appare molto meno negli anni seguenti Figure 8; niente più interviste, niente più concerti. Le poche volte che appare sembra malandato, abbandonato a se stesso; capelli lunghi, barba, segni di perdita della memoria durante i concerti, mani tremolanti. La sua salute psichica peggiora tra psicofarmaci, calmanti, alcol, eroina e pensa spesso al suicidio. Sarà ancora ricoverato in clinica un anno prima di quel fatidico 21 Ottobre 2003.

elliot-smith-723154And when I go don’t you follow…
Elliott viene trovato morto nella sua casa di Los Angeles dalla compagna Jennifer Chiba, trafitto da una pugnalata al cuore. 34 anni e di lui soltanto un post-it che recitava: “I’m so sorry. Love, Elliott. God forgive me”. La tensione sempre interiorizzata per la costante esposizione alle telecamere di un mondo troppo crudele per la sua fragile sensibilità e il semplice e insostenibile male di vivere. Smith fu cremato. Nessuna cerimonia formale, nessun funerale maestoso. Soltanto quella figura dell’8, che incontestabilmente simboleggia l’infinito di un animo sensibile, campeggia dipinta su un muro fuori i Solutions Studios a LA e quelle facce dei fans, lacrime agli occhi, cuffie nelle orecchie, che su quel muro scrivono messaggi di addio, lasciano foto, candele, bottiglie vuote d’alcool, consapevoli di aver perso una parte di loro. A un anno esatto dalla morte, esce l’album che Smith aveva in preparazione: From A Basement On The Hill, ritratto di un artista fragile e incompreso, schiacciato dal disagio, ma ancora in grado di regalare emozioni. Nel 2007 New Moon raccoglie materiale per lo più inedito risalente al periodo Kill Rock Stars tra l’album omonimo e il successivo Either/Or.
Ma il sole di Elliott Smith ancora illumina i nostri passi. Le sue ceneri sembrano fluttuare nei cieli dell’infinito e come polvere magica, sottile, diffondersi nel cuore, a metà strada tra le corde di una chitarra acustica e le parole di qualsiasi cantautore odierno. “And when I die, death surrounds, protects the living, this is what you said/, And I agreed, not to be so unforgiving, just because your sole’s untied and free/, cos I’m here, if you want me, my love, dancing on the highway”. (Dancing on the Highway).
“Io davvero non so cosa accade quando muori. Non mi piace l’idea di essere sotterrato. Preferirei andarmene nel deserto ed essere mangiato dagli uccelli”.

(La seconda trasmissione di SubwayTv è Lo speciale Elliot Smith curato da Gianluca Gentile: apparizioni live e minifilmati d’autore)

Angeles (from Lucky 3)

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