Alzai gli occhi, sperando quasi di trovarci l’oggetto dei miei sogni, ma tutto ciò che vidi fu un cielo pieno di stelle. È la didascalia del primo dei disegni contenuti nel booklet dell’album. Il ragazzo dai grandi occhi scruta la volta celeste con meraviglia; probabilmente non ne sa ancora nulla di Immanuel Kant, della legge morale dentro di sé, ma il cielo stellato che fa da tetto al mondo è già abbastanza grande per perdercisi. Nell’aria danzano fiocchi di neve, dalla collina le lucine degli astri si confondono con quelli della piccola città laggiù in basso. Una melodia leggera come un carillon ritrovato in soffitta ci porta le parole lontane di una ragazzina fragile e bella come un fiocco di neve. “My name’s Elisabeth/ my life is shit and piss”. Non abbiamo mai conosciuto la ragazzina che giace sul pavimento del bagno (Elisabeth on the Bathroom Floor), ma la sua voce è così familiare… sappiamo che lei non c’è più, la sua immagine nelle foto in bianco e nero è così diafana da sembrare sul punto di sparire, a passi lenti come tranquilli scarafaggi seguiamo il corteo funebre (Going To Your Funeral Part I). Osserviamo, come sotto ipnosi, le persone attorno al feretro: “Look at all the people with/ the flowers in their hands/ They put the flowers on the box/ that’s holding all the sands that was…/ that once was…/ that once was you”.
Ci allontaniamo con gli occhi velati di lacrime, la strada è una lunga striscia di basso elettrico attraversata dalle svisate delle luminarie disegnate da un organo ripescato un po’ ammaccato da un robivecchi degli anni ’70. Frequenze disturbate si spengono in un ritornello semplice da canticchiare con le mani in tasca sul viale verso casa, senza parole, solo un “La la la la la la/ la la” soffiato tra le labbra, mentre foglie di violino si posano su un tappeto ancora verde di tastiere ariose. Non c’è gioia, non c’è allegria, non finché continueremo a sentire quelle voci dentro la testa… “Voices tell me I’m the shit” (My Descent Into Madness). Ci sediamo sulle scale del portico, intorno si è fatto silenzio, solo una chitarra morbida come il pelo di un gatto ed un organo più dolce di un bacio ci fanno alzare di nuovo gli occhi al cielo, che si riempie in un momento delle nostre fantasie e delle domande che vorremmo rivolgere se ci fosse Qualcuno lassù ad ascoltarle… “And I looked up at the sky last night/ and I thought I saw a bomb/ And why won’t you just tell me/ what’s going on?” (3 Speed). Non riusciamo a dimenticare il viso della bambina, il suo nome era Elisabeth, quando la malattia cominciò a corroderle la vita come un acido versato su un guscio d’uovo dovettero portarla in ospedale, ci sembra quasi di vederla, chissà perché, è un’immagine colorata come un vecchio cartone animato, le pareti dell’edificio e il pavimento sbilenchi come i sassofoni asimmetrici di Bill Liston (Hospital Food). Basata su pagine scritte da Elisabeth, la title track è una ninna nanna spettrale suscitata da poche note di piano, la voce spezzata che racconta un dolore che non trova pace… “Feeliing scared today/ write down I’m ok/ A hundred times the doctor say/ I am ok/ I am ok/ I’m not ok”. Le note stillano calde lacrime nel fruscio di un disco che nessuno ascolta più (Electro-Shock Blues). Atmosfere di sogno, come tempo che scorre a ritroso (Efils’ God), ancora un carillon cullato da un dolcissimo clarinetto (Going To Your Funeral Part II), per ritrovarci nella prima luce di un mattino che ci fa girare gli occhi verso il mondo che ci ruota attorno nonostante il cuore spezzato… “You’re dead but the world keeps spinning…/ Can you take me where you’re going/ if you’re never coming back”. Immagini di una bambina che giocava nella sua stanza (Baby Genius), campanellini impalpabili di cristallo e seta, la nebbia del tempo si dirada i ricordi si fanno più nitidi; la chitarra di Grant Lee Phillips, il canto di “E” che nobilita la tristezza fino a portarla come un diamante sulla luna (Climbing To The Moon), flauto e banjo che raccontano di cose ormai perdute, e ancora a seguire una dichiarazione d’amore disarmante (Ant Farm): un country da cortile, il violino di Lisa Germano è un abito prezioso sul corpo di un angelo. “Thought that I’d forget all about the past/ But it doesn’t let me run too fast/ And I just wanna stand outside/ and Know that this is right/ and This is true/ and I will not/ Fade into/ Fade into the night… Standing bare in the dark.” Il passato è di nuovo tutto qui, Elisabeth non è solo una ragazza di cui abbiamo sentito raccontare, Elisabeth ha vissuto con noi tra queste mura, la sua assenza è una canzone che non smetteremmo mai di cantare, vogliamo restare fuori a guardare le strade piene di auto, a immaginare una piccola luce che si accende e si spegne, a immaginarci come ci si senta ad essere dentro quella luce in una notte serena alla fine dell’inverno (Dead Of Winter). Carillon. Memorie. Tutto si fa chiaro. Elisabeth giocava in queste stanze. Lei era la nostra migliore amica. Lei era nostra sorella. Lei era la luce che si accendeva e si spegneva. Le medicine sembravano funzionare, il canto era leggero, la chitarra puliva il cielo delle nubi con pochi tocchi d’azzurro (The Medication Is Wearing Off). Vedi questo orologio? Fu lei a regalarmelo. Spero continui a segnare il tempo per sempre. Elisabeth è andata, il male ha corroso il fragile guscio d’uovo, nell’aria c’è profumo di primavera, gli archi ridonano colore ai fiori, la chitarra è un’auto veloce lungo una strada costeggiata dal mare, il basso è il battito di un cuore emozionato… “Laying in bed tonight I was thinking/ and listening to all the dogs/ and the sirens and the shots/ and how a careful man tries/ to dodge the bullets/ while a happy man takes a walk/ And maybe it’s time to live”. Il suo nome era Elisabeth. Era la nostra migliore amica. Era nostra sorella. È morta suicida. Nessuno la riporterà indietro. Forse è il momento di tornare a vivere.
Questi sono gli Eels, e questo è Electro-Shock Blues (1998): un album bellissimo.