Melodie accattivanti, sapori che provengono da lontano e l’energia dei vent’anni. Un esordio di tutto rispetto, per The One’s. LostHighways ha incrociato le strade di questa giovane band partenopea, per indagarne le radici, raccontarne il percorso compiuto finora e quello a venire.
Si parla di sogni, di futuro, si tasta il polso all’Italia di oggi, quella che sta sotto un palco o tra le pagine di internet. Soprattutto si discute di musica e passione.
Un’intervista densa, accompagnata da un brano speciale: I haven’t lost my hope, yet, estratto in esclusiva per Losthighways dall’album The Debut of Lady June. Ancora una volta, perdiamoci insieme, tra la cura delle parole e la nitidezza dell’espressione musicale.
Le vostre prime produzioni risalgono al 2005. Da lì in poi siete stati notati e vi siete ritrovati ad incidere i vostri brani. The Debut of Lady June è nato strada facendo o avevate già le idee chiare dall’inizio? Quando ci siamo trovati a parlare dell’album avevamo già in mano abbastanza materiale per riempire un disco. Diverse canzoni risalgono al 2005, altre sono addirittura precedenti e solo un paio sono state scritte appositamente per l’album. Proprio per questo motivo ci siamo concentrati sugli arrangiamenti, avevamo la necessità di uniformare questo materiale e renderlo omogeneo. Quello che è venuto dopo, strada facendo, è l’idea di The Debut of Lady June come una magica “journey” del personaggio attraverso le frivolezze, il divertimento e la festa di una giornata di sole ma che svaniscono nelle atmosfere ombrose e riflessive delle ore più buie. Costruendo la tracklist ci siamo resi conto di quanto fosse limpida la differenza di intensità tra le tracce che potevano tranquillamente essere divise in due parti, come se fossero i due lati di un 33 giri. Ed ecco il concept dell’intero album, The Debut of Lady June, l’esordio alla vita di Lady June.
Dream, l’Ep che ha anticipato il vostro primo album, è stato presentato al Popkomm di Berlino. Ci parlate un po’ di questa esperienza? Il PopKomm negli ultimi anni si sta affermando come una delle manifestazioni più importanti del settore. Ogni anno sono migliaia le etichette, le agenzie e le bands che si ritrovano in una delle città più belle d’Europa e si tratta di un’occasione unica per confrontarsi con realtà musicali così diverse tra loro. Nell’edizione 2008 è stato presentato il nostro primo singolo Dream, l’augurio è di poterci andare in veste di “performer” l’anno prossimo. Manifestazioni del genere sono una grossa vetrina per chi, come noi, si affaccia al mondo della discografia e penso anche al M.E.I. italiano. Troppo spesso però in queste occasioni i grandi rimangono grandi e i piccoli sono pur sempre piccoli, invece sarebbe più utile dare maggiore spazio e visibilità proprio a chi ne ha più bisogno.
Molti artisti italiani, grazie alle potenzialità del web, cercano confronto e riscontro anche oltreconfine. A partire proprio dell’esperienza di Berlino, credete che la vostra musica possa essere meglio compresa all’estero? Senza dubbio la scelta dell’inglese prevede una certa “internazionalità” della nostra musica. C’è da dire poi che il pubblico estero è molto più aperto a cose di questo tipo. Un italiano che canta in inglese se va in Francia, in Spagna o in Germania, per dire, è la cosa più normale di questo Mondo; un italiano che canta in inglese a Napoli, a Roma o a Milano, beh…c’è qualcosa di strano, no? E il problema è culturale, credo. I ragazzi in tutta Europa parlano perfettamente l’inglese, mentre qui abbiamo ancora un po’ di strada da fare. Non perché dobbiamo dimenticarci dell’italiano, sia chiaro…la nostra è una delle lingue più belle ed eleganti dal punto di vista artistico e letterario; credo però che nel 2009 si debba riconoscere l’inglese come lingua universale e una maggiore alfabetizzazione, in questo senso, sarebbe auspicabile. Per rispondere alla domanda, non saprei dire se la nostra musica sarebbe meglio compresa all’estero rispetto all’Italia, però mi piacerebbe provarlo sulla mia pelle magari con una serie di concerti e vedere la reazione del pubblico. Devo dire però, anche se siamo solo all’inizio, che non c’è stato un solo concerto andato male da quando abbiamo iniziato, per cui forse sto sottovalutando gli italiani, chissà.
Del progetto The One’s, oltre alle note, sorprendono la vostra giovane età e la provenienza geografica. Da giovanissimi italiani, come vi siete avvicinati a questo particolare genere? Quali ascolti vi hanno formati?
E’ ovvio che per arrivare ad un sound come il nostro siamo passati attraverso anni ed anni di ascolto dei mostri sacri del genere: Bob Dylan e Beatles sopra tutti, Tom Waits, Springsteen, John Lennon, Elton John, Stones, Donovan e potrei continuare all’infinito. E’ ovvio poi che qualsiasi cosa ascolti influisce in maniera più o meno consapevole su quello che scrivi e suoni, anche la più banale canzone pop di Britney Spears o le colonne sonore dei film. E’ naturale. Quando abbiamo iniziato a suonare insieme eravamo molto più “cattivi”, più rock. Assomigliavamo molto più ai Cream che a Bob Dylan, sebbene io personalmente abbia sempre ascoltato in maniera quasi maniacale il secondo. Per quanto riguarda il genere poi, questo è quello che siamo e abbiamo fatto in questo momento della storia della band ma è chiaro che non vogliamo rimanere fossilizzati in queste sonorità, sarebbe riduttivo per noi. Abbiamo vent’anni e tutta una vita musicale davanti a noi e solo Dio sa a quale sound arriveremo in futuro.
Dopo l’uscita del disco, il live. Che progetti avete in proposito e cosa si deve aspettare chi viene ad assistere ad un vostro spettacolo? Cosa invece vi aspettate voi? L’idea e l’augurio è quello di poter fare il numero più alto di concerti in giro per l’Italia. Fin ad ora ci stiamo muovendo prevalentemente nel centro-sud ma sicuramente nel prossimo futuro saliremo anche al Nord. Quando promuoviamo il disco nella dimensione live cerchiamo di rendere al meglio i contenuti delle registrazioni. Nel disco ci sono diversi strati sonori sovrapposti che dal vivo non sempre possiamo riprodurre; mi riferisco agli ottoni e ad alcune percussioni. Quando abbiamo presentato il disco al Duel:Beat di Napoli, il 24 Gennaio, eravamo in sette sul palco e ne è venuto fuori uno spettacolo completo e avvolgente. Per motivi sia di budget che di spostamento non è sempre possibile avere degli ospiti sul palco e abbiamo dovuto modellare il “live set” a nostra dimensione; ora siamo diventati bravi a fare in quattro quello che in teoria si dovrebbe fare in sette o addirittura in otto musicisti. Chi viene ai nostri spettacoli deve aspettarsi innanzitutto tanto, davvero tanto divertimento unito a qualche momento di sospensione riflessiva che, con l’aiuto di un paio di bicchieri presi al Bar, lascerà pienamente soddisfatti. Garantito!
Anche prima del debutto discografico vi siete già confrontati con il live e vi sarete certamente incrociati con altri colleghi. Che impressione avete della scena musicale italiana a voi più vicina? Negli ultimi mesi qualcosa di importante sta muovendo la scena napoletana. Penso agli amici Gentlemen’s Agreement, agli Atari, ai Collettivo, ai Pipers e penso alle decine di band napoletane che stanno crescendo insieme con l’intero movimento. L’hanno definita “New Wave Napoletana” anche se abbiamo poco in comune tra di noi, tranne la scelta dell’inglese e quindi un approccio non prettamente italiano. Mi auguro che questo serva ad evidenziare quanto di buono c’è dalle nostre parti e quindi possa dare un’idea completa di quello che significa la musica dalle nostre parti. In Italia c’è tanta qualità ma c’è bisogno di imparare dai grandi artisti internazionali a coniugare questa qualità artistica con l’approccio genuinamente Pop degli anglosassoni. Non bisogna mai rinnegare la Pop Music, non dimentichiamoci che siamo al servizio del pubblico e non degli intellettuali.
Come molti colleghi, avete sfruttato internet per farvi conoscere e per diffondere la vostra musica, anche se il vostro disco è in distribuzione attraverso canali più tradizionali. Che riscontro avete dalla rete? Riuscite ad avere un confronto con i vostri ascoltatori e a guadagnarne di nuovi? E’ chiaro, internet rappresenta un canale di promozione enorme. Oggi un ragazzo passa più tempo al pc che davanti alla televisione o ascoltando la radio, e già questo ti dà l’idea di cosa può rappresentare la Rete per chi vuole promuoversi. Bisogna però stare attenti a non relegare il tutto in questa specie di mondo parallelo e anarchico; i dischi e i concerti sono ancora il modo migliore per ascoltare musica e non devono essere sostituiti da MySpace, Youtube, Facebook e affini.
Per concludere, una piccola riflessione. Le major sono in crisi, gli investimenti diminuiscono anche nel mondo mainstream. L’universo cosiddetto indie, come al solito, si rimbocca le maniche e sopravvive. Pensate che si possa ancora sognare di vivere di musica? Onestamente mi auguro proprio di sì. E’ triste pensare che troppo spesso i musicisti siano obbligati a fare un secondo lavoro e relegare quella che dovrebbe essere la loro unica occupazione a semplice passione e hobby. Parlando in generale, quello del musicista dovrebbe essere considerato un mestiere proprio come tutti gli altri e chi intraprende questa strada non può brancolare nel buio. Un tempo agli orfani veniva insegnata la musica perché considerata un mestiere sicuro, affidabile; oggi è l’esatto contrario. Mi auguro davvero che le cose possano migliorare e mi riferisco soprattutto a chi intraprende la carriera di musicista-turnista. E’ ovvio che per quanto riguarda gli autori e i compositori a pagare dovrebbe essere la qualità del prodotto che si vuole offrire. Siamo pur sempre degli intrattenitori, degli uomini di spettacolo e di cultura e se il pubblico non è soddisfatto vuol dire che non facciamo bene il nostro lavoro.