Dall’unione del trio di Montreal Big|Brave e del più navigato duo di Providence The Body nasce un progetto, tenuto per oltre un anno nel cassetto, che accantona le pesanti e oscure atmosfere doom metal e noise sperimentale, a tratti insostenibili anche per orecchie allenate ad ascolti estremi, nelle quali si erano da sempre mosse le due band, per convergere verso un folk dilatato e rituale, pensato come una parentesi catartica di recupero delle origini pre-discografiche per i canadesi e come tassello di eclettismo nella vasta produzione di collaborazioni del duo del Rhode Island.
Ridotto al minimo il gain dell’overdrive e del fuzzbox, una marziale sequenza di soli due accordi diventa in Blackest Crow il pattern ritmico di un’ancestrale purificatoria ripetizione, di una possente ballata di tempi antichi e remoti, tagliata dall’archetto di un violino ebbro, gonfiata dal canto maestoso di Robin Wattie che tinge di rosso il vasto cielo di una dichiarazione d’amore apocalittica “The blackest crow that ever flew / Would surely turn white / If I ever prove false to you / Bright day will turn to night / Bright day will turn to night my love / The elements will mourn / If I ever prove false to you / The seas will rage and burn“. Il groove seventies della cupa ballata Oh Sinner aggiorna questa formula al ritmo sincopato di una chitarra strozzata che pare il crepitio di un organo Hammond.
Sono indubbiamente Hard Times quelli che viviamo e non sorprende che riemerga lo spettro di The end dei Doors ad animare un rituale magico che affonda tra la nera terra dei boschi appalachiani, tra le corde acustiche dei pionieri europei e gli spiriti fumanti dei nativi, finché una colata di saturazione incandescente viene a ricoprire tutto come a esigere un tremendo, ineluttabile sacrificio. Ardua prova che non basta per ritrovare l’amore perduto cantato in Once I Had a Sweetheart, colorando di tinte pop il teso schema di chitarre dell’intro, che discende dal bluegrass di Dueling banjos, risultando nel ritornello altrettanto disturbante del film Un tranquillo weekend di paura (1972) che utilizzava quelle musiche tradizionali nella colonna sonora. Ma l’episodio più propriamente folk dell’album è Black is the Colour con la sua acustica pulita e arcaica e il canto raddoppiato, col supporto di Tasy Hudson, tanto vibrante che pare ripreso dai microfoni filologici di Alan Lomax, nei suoi pellegrinaggi alla ricerca delle radici rurali più nascoste della musica nord americana. Polly Gosford, dai cui versi deriva il titolo dell’album (“He covered her grave / and hastened home / Leaving none but small birds / her fate to bemoan“), estremizza il canto verso il lirismo gotico e tetro di Lingua Ignota, pseudonimo di Kristin Hayter, quasi lottando per non rimaner sopraffatto dalle pesanti sabbie mobili delle chitarre distorte, materica rappresentazione del tormento e della colpa del protagonista del brano. Ed è ancora un muro di feedback a informare il post-rock di Babes in the Woods, le sue lente trame di malinconia e tempesta, che si dissolvono come nebbia al mattino perché più nero della notte è il racconto di due bimbi spariti nel bosco, che chiude l’album con la spiazzante e spaventosa leggerezza di una filastrocca popolare.
Credits
Label: Thrill Jokey – 2021
Line-up:
The Body: Lee Buford (batteria) – Chip King (voce, chitarra)
Big|Brave: Robin Wattie (voce, chitarra) – Tasy Hudson (batteria) – Mathieu Ball (chitarra)
Morgan Eve Swain (voce, violino, cello)
Tracklist:
- Blackest Crow
- Oh Sinner
- Hard Times
- Once I Had a Sweetheart
- Black is the Colour
- Polly Gosford
- Babes in the Woods
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