È il 25 luglio del 1965, Bob Dylan sale per la terza volta sul palco del Newport Folk festival. Stavolta imbraccia una Fender Stratocaster e il pubblico dei puristi non la manda giù, scoppia un putiferio e il concerto elettrico si interrompe tra fischi e proteste dopo sole tre canzoni.
Napoli, 23 dicembre 2022, c’è il sold-out al Teatro Stabile Galleria Toledo in cima ai quartieri spagnoli, e il livello alto delle aspettative s’intuisce anche dal vedere nelle prime file musicisti come Dario Sansone, Tartaglia e Greta Zuccoli. Dopo la sorprendente apertura dell’esordiente Michele Spina, che regge il palco con voce versatile e potente accompagnandosi con una chitarra acustica di accordi anomali dissonanti, sale sul palco la full band tanto attesa. Uno per volta, a partire da Luca Caligiuri, che prende subito posto dietro la batteria e inizia a pestare le pelli senza troppe smancerie. Ogni compagno che approda in scena gli va subito dietro in un crescendo di blues rozzo e malato in cui si fatica a riconoscere Nuvola. Qualcosa non quadra, che accade? Mentre la musica pompa, ecco salire sul palco anche Gnut, giacchetta da dandy e capo scoperto. Alla tracolla anziché la fidata Ciaccarella porta una Fender Telecaster come Mike Bloomfield a Newport, lui bianca Claudio nera, ma sembra di vedere Robbie Robertson. Ancora non lo sappiamo ma stiamo per assistere a una vera e propria svolta elettrica. Con l’ultimo album Nun te ne fa’ s’era capito che qualcosa di nuovo bolliva in pentola, ma l’ascolto di quelle incisioni poteva riflettere la sicura produzione di Piers Faccini, capace di connotare con precisi arrangiamenti il sound così vario ed espressivo dei brani. Dal vivo, invece, la musica è nuda, deve trovare la sua strada senza sovrastrutture. E infatti stasera quella che emerge è la leadership gentile e passionale di Claudio, la sua intima visione. I musicisti sono gli stessi (salvo l’ingresso della bravissima Ilaria Graziano al posto di Sollo: scelta molto coraggiosa cui si deve parte della diversa sonorità del nuovo album) che aiutarono a confezionare una serata magica come quella al Pio Monte della misericordia. C’eravamo quella sera e abbiamo visto il set acustico di Claudio declinato in tutte le forme, da solo, in duo, in trio, full band, con ospiti e amici, ciascuno col suo sound. Non è facile cambiare. Ancor più arduo farlo senza snaturarsi, restando fedeli alla propria indole e visione artistica, conquistando unanimemente il pubblico a un nuovo corso. Nessuno, infatti, sembra farci caso, anche se Gnut ci scherza ogni tanto, “e che cos’è sta cosa elettrica?”, senza nominare mai, quasi per pudore, la sua amata Ciaccarella, mentre il flusso di note scorre gioioso ad avvolgere i presenti. E non è facile neppure trasporre un consolidato stile di arpeggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, per le differenti dimensioni del manico e le diverse risposte delle corde sotto le dita. Quelle di Claudio si muovono in una personale danza di posizione alternata che conserva intatta anche sulla Fender il suo tortuoso andamento d’influenza africana. Eppure il suono è diverso, tagliente quanto lieve, dinamico nel ritmo e corposo nelle pennate che indugiano a scandire ogni singola corda, in cerca di un sound pulito e fresco che si sposa alla perfezione con la vintage hollow-body di Gianluca Capurro. I due si muovono con tale intesa ed equilibrio che a tratti è difficile capire chi stia suonando cosa senza guardare le mani sulla tastiera. In più Capurro mette in campo un campionario di suoni ed effetti, persino un piccolo xilofono, che incidono profondamente sull’atmosfera dei brani, ora infliggendo ferite con lame aguzze, come nel solo de L’ammore overo, ora svaporando accordi in delay onirici. Valerio Mola al basso elettrico, anche lui Fender, dà corpo al suono con disinvolta ed energica fluidità, così come Caligiuri tiene il ritmo con battiti calmi e sferzate improvvise, come quando cambia di punto in bianco il tempo in Solo con me quasi ad incitare i solisti a darci dentro, tenendo comunque fede all’impostazione misurata data dal leader. Michele Signore resta ovviamente nel suo acustico placido pathos, ma dialoga armonicamente con le corde elettriche destreggiandosi come sempre tra violino e mandolini. Con uno di questi gli dà una mano Capurro nell’esecuzione della zigana e partenopea I’, guadagnando la ribalta per una sola volta prima di tornare nelle retrovie a lavorare sui suoni, come un Fripp finalmente libero dalle sue ossessioni. Ilaria Graziano, immobile, sottile e lunare, indifferente al giudizio altrui, prende il ruolo della seconda voce per intrecciarla con quella di Claudio sulle frequenze alte, ma è anche una straordinaria solista che si ritaglia il proprio spazio sui brani nuovi, già interpretati su disco, come sui vecchi. In Credevo male, ad esempio, parte da altezze tanto vertiginose danzando con grazia inusuale sull’orlo fragile di una cima innevata, donando veste inedita ad uno dei nevergreen di Gnut, ed interpreta con forza ancestrale la parte di Fausta Vetere in Colpa mia. La canzone dalla doppia anima costituisce il fulcro della serata, partendo dal prato ombroso del folk d’albione e del suo cantore Nick Drake giunge ai primordi percussivi della tradizione campana con l’ingresso in scena di Luca Rossi, che al centro del brano si produce in un solo formidabile alla tammorra, da cui cava suoni inauditi e ritmi complessi che sfociano infine in una tarantella infuriata che trascina con sé tutta la band, in un crossover unico di antico e moderno, acustico ed elettrico, cultura popolare e controcultura psichedelica. Non a caso un altro episodio saliente del concerto è rappresentato dalla lunga improvvisazione acida di Solo con me, durante la quale lo stesso Claudio si cimenta in un raro assolo, scarnificato e giocato sul ritmo con forse in testa il Keith Richards di Can’t you hear me knocking? e le evoluzioni colorate della scena lisergica di San Francisco e del Monterey Pop Festival. E naturalmente non poteva mancare in una serata napoletana il cantante e poeta Alessio Sollo, che si unisce alla banda per soli due brani, in due momenti diversi, la canzone del vero amore che ha fatto scoccare la scintilla tra lui e Claudio e la drammatica e potente Tutta ‘a vita annanz’, in entrambi i casi senza potersi trattenere dal dimenare il corpo per la gioia di aver prestato più che le bellissime parole ad un tale concerto. Otto musicisti sul palco, grande intesa, grande amalgama, grande sound, ma per il finale Gnut si ritaglia ben due momenti solo per sé, la splendida e storica canzone napoletana Passione, tanto delicata e passionale quanto affilata come una lama eseguita con la Telecaster, e infine l’ammirevole e dolce invito intonato in mezzo alla band che siede per terra tutto intorno per prendersi Nu poco ‘e bene. Grazie Claudio, stasera ne hai donato tanto.