È uscito il 17 marzo per La Canzonetta Record il nuovo lavoro di Giovanni Block, polistrumentista e cantautore napoletano, classe 1984, dal titolo Retrò. Un concetto di retrovisione intesa come non-allineamento, non un rifiuto nel guardare avanti, bensì conforto nell’affondare le mani e le braccia nel vaso di Pandora del passato e delle cose che ci resero felici. Che si sa, talvolta il presente si ingelosisce del passato fino ad arroventarlo, prima di doverlo stemperare nel ghiaccio dei ricordi che leniscono le possibili deformazioni. E allora le undici tracce di questo disco, tra cui una ghost track in chiusura, fotografano immagini sparpagliate nel tempo ma non fuori posto, a ribadire, come suggeriva Yukio Mishima, che le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso. Retrò come modo di essere che l’artista Block fieramente rivendica, come quella sensazione che viene fuori quando si scava sottoterra per creare una nuova linea della metro e devi stoppare tutto perché sulla traiettoria incontri dell’archeologia. Allora maledici la sorte che impone la sosta, ma un secondo dopo sei lì, gaudente, a contemplare quello che era. Retrò come chi diserta la vita in una perpetua resaca da sabato mattina, per usare uno spagnolismo, capace di dissacrare ogni forecast stimato sul se stesso del giorno dopo, per benedire invece l’effetto seppia sparato sull’altro ieri. Retrò come chiedere ad un napoletano dove sia piazza Alighieri e sorridere del suo sguardo colpevole, da ultimo banco. La prima traccia, Sposami sul mare, taglia il nastro inaugurale con Giovanni Block che lascia gocciolare su tela atmosfere da anni sessanta, con un delicato dripping, per raccontare una generazione di quarantenni irrisolti fuori tempo e fuori posizione, con lo sguardo fisso sul retrovisore che riflette immagini avvolte dalla nostalgia, un velo di marmo di mano sammartiniana, a rivestire un presente che diviene febbrile attesa di qualcosa di meglio. E allora l’invocazione alla salvezza congiunta diventa urgenza ad allontanare la sera quasimodiana, usando il darsi il permesso della fragilità come erba medicale. Ne Il primo tra i fanti i ricordi puntano contro i fucili, sparando alle ginocchia prima di mirare alla fronte. Questione di sovrapposizioni di immagini ed il loro timing impietoso a tramutare le vittime in assassini. Nascere tondi per morire cubi, naturale deriva chi si è creato spigoli giocando in malafede. E se è vero che chi è solo è sempre in cattiva compagnia, per usare le parole di Paul Valery, quando la prima linea è scoperta, indifesa ed impaurita anche di avere paura, e non si può più mentire a se stessi, si finisce col sentirsi senza possibilità di scampo, come uno che ha una gamba sola in una gara di calci nel sedere. L’ironia divertita di Vi odio, primo singolo uscito ad anticipare il disco, smaschera l’ipocrisia che si annida dietro fondali di buonismo, lanciando segnali di pericolo a ribadire che l’odio come sentimento prolifera oggi per le strade più dei cinghiali a Roma nord. Per palati fini la citazione in chiosa che arieggia nella resa del Rinaldo di Handel e nel suo “lascia ch’io pianga mia cruda sorte“. La ballata dei ricordi, con le sue profonde venature di un De Andrè che è imperituramente scrigno dei desideri per chiunque poggi una penna su di un foglio, viene impreziosita dalla meravigliosa promenade centrale solcata dalla voce raffinatissima di Petra Magoni. Coltellate da relazioni che hanno tirato via fino all’ultima stilla di sangue, trasformando in inferno l’amore un tempo profondo. Seguendo una sorte inevitabile come dover riconsegnare a Dio la mano presa in prestito per vendicare le Malvinas. Ma continuando a brindare a ciò che è stato, alzando il bicchiere con l’altra mano. 35 sono gli euro con cui si baratta una vita. In questo pezzo Giovanni Block affianca due storie contemporanee perché riprese dai media nello stesso giorno del 2018, ma dal finale tragicamente divergente. Da un lato un giovane che trova la morte per pulire un lucernario, per una paga di trentacinque euro a via Duomo e dall’altro Ronaldo che passa alla Juventus per centocinque milioni di ingaggio, prima dei fogli scarabocchiati a penna. La distonia evidente tra gli esiti di due esistenze non apparentate apre voragini di interrogativi inevasi, quasi come a chiedersi con Brecht se sia più immorale svaligiare una banca o fondarla. L’amore e il veliero, presente nel disco anche in versione voce e pianoforte ripresa da un live del 2018, è una delicatissima ballata dallo sguardo obliquo sul passato e la lacrima di rimpianto pronta a cadere per ciò che non si è riuscito a difendere, a trattenere. Immobili a ricordare i giorni felici in cui il fato ci riempiva di lacrime ed arcobaleni, come cantava il poeta di Milo. Spesso per via dei mostri che ci portiamo dentro, come vitamine nere a lento rilascio, e che indicano la via dell’uscio, scacciando dalla tasca bianca del cuore anche lei che era tutto. Salvo poi ritrovarsi in un cratere e sentirsi imprigionati come da strisce blu di parcheggio dipinte di notte attorno ad un’auto lasciata lì la sera prima senza grattino. Un rimando dannunziano ne La pioggia nell’orto, canzone nata nel giorno in cui l’autore apprese dell’improvvisa scomparsa del suo maestro di conservatorio, l’insegnante Lo Gatto, rendendo “il cielo più grigio di quando l’estate ci piove sull’orto“. Uno di quei giorni spartiacque che aprono cerniere sul tempo in cui abbiamo imparato ad allacciarci le scarpe per poter andare da soli, con le benedizioni di chi con la torcia alle spalle indicava l’inizio della strada. Che si sa, le creature si accarezzano nel sonno, accompagnandole dove “non esistono gli oramai“. E facendo di tutto affinché, una volta cresciute, quelle creature mantengano la purezza del loro stupore, come quella di un inserviente che incontra il principe di Zamunda fuori dalla toilette del Madison Square Garden nell’intervallo di una partita dei Knicks. Il delicato splendore della Preghiera dell’artista inizia con il beep di un cuore che reagisce e rappresenta lo zenit dell’intero disco. Che è la bacchetta del Fare Canzone a scegliere il mago e molto raramente avviene il contrario. Gli archi sono sciabolate di gentilezza su una melodia che arriva liscia fino all’aorta mentre i versi sono abbracci sacri che fanno luce nelle ossa, direbbe Franco Arminio. Capaci di spingere questa invocazione timida ma iridescente fin sopra la volta celeste, a bussare a porte forse ritenute da sempre non abitate. A chiedere fede in cambio di fede. La meritocrazia, nella sua orrida versione splatter odierna, viene sbertucciata dalla incontrovertibile evidenza che tutto ciò che le precedenti generazioni hanno indicato come essenziale per le nuove, in realtà è frutto della più assoluta improvvisazione. Tra le trincee delle età diverse, rancori fumanti quasi come se fossero stati i quarantenni di oggi a partecipare alla YALTA che mise la croce sulla via Mario Fani delle speranze delle nuove generazioni. Nuove generazioni che guardano ai boomer con la stessa aria dubbiosa con cui ci si interroga sulla diaspora che ha generato una pioggia di targhe polacche sulla mia città negli ultimi anni. E allora viene quasi naturale auspicare che lo scenario dipinto in Ezechiele 25:17 diventi realtà quanto prima. I gatti lo sapranno è la ghost track che chiude la porta del disco e nasce da un collage di due poesie di Cesare Pavese tratte dalla raccolta postuma Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi, con la strofa ripresa da The cats will know. L’apparente tragicità che allude alla morte in realtà viene edulcorata da un ritornello colorato, quasi “come se Keith Haring avesse riempito di figure il fondo scuro e denso della flagellazione di Caravaggio a Capodimonte”, per usare una metafora del critico musicale Stefano Causa. Come quando da piccoli si premevano tubetti di tempere su un foglio, prima di piegarlo e pressare con tutta la forza infantile fino a vedere colori prima ben definiti divenire poi composizioni cariche di ogni cromìa in misura equa, così Retrò unisce senza imbrogli né algoritmi ironia, delicatezza, lirismo, allegrezza e denuncia. E se Dio ha tolto dal deserto tutto il superfluo, come recita un proverbio Tuareg, qui Giovanni Block lascia tutto quello che è essenziale a disegnare un ottimo lavoro, a conferma di un talento in continua evoluzione che oltre a scrutare l’orizzonte sa anche guardarsi alle spalle, senza il timore di finire impigliato in accostamenti improbabili come la somiglianza tra Dave Gahan e Matteo Messina Denaro. Le citazioni al patrimonio cantautorale di Dalla, Gaetano, Gaber, Lolli e De André qui aprono cancelli senza serrature per entrare in abitazioni in cui non ti siedi comodo soltanto, ma ti rimbocchi le maniche ed inizi a spostare mobili ed arredi per fare in modo che quel posto somigli anche un po’ alle tue parole, legittimando la targhetta con il tuo nome sulla porta.
Credits
Label: LA CANZONETTA RECORD – 2023
Line-up: Giovanni Block (voci, synth, rhodes, chitarra acustica, chitarra classica, flauto traverso, archi) – Petra Magoni (voce) – Attilio Fontana (voce) – Roberto Trenca (chitarra acustica, chitarra classica, charango, cuatro) – Luigi Scialdone (chitarra elettrica, tres, guitarele, mandolino) – Enzo Lamagna (basso, contrabbasso) – Pasquale De Paola (batteria) – Pasquale Benincasa (percussioni) – Roberto Porzio (pianoforte, organo) – Marcello Giannini (chitarra elettrica) – Marco Di Palo (violoncello) – Giovanni Barbaro, Simeone D’Andrea, Adriana D’Anna, Samuele Motta, Roberta Block, Marina Block, Vincenza Cardone, Alessia Tomberli (cori) – Aurora Astarita, Viola Pacifico, Carlo Maresca, Eliana Maresca, Giulia Mazzella Di Bosco, Ninasole Barraco, Niccolò Citarella (coro di bambini)
Tracklist:
- SPOSAMI SUL MARE
- IL PRIMO TRA I FANTI
- VI ODIO
- LA BALLATA DEI RICORDI
- 35
- L’AMORE E IL VELIERO
- LA PIOGGIA NELL’ORTO
- PREGHIERA DELL’ARTISTA
- LA MERITOCRAZIA
- L’AMORE E IL VELIERO REPRISE
- GHOST TRACK: I GATTI LO SAPRANNO
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