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In bilico: intervista a Michele De Finis (FANALI)

fanali_1124Foto di Sabrina Cirillo

Michele De Finis, Caterina Bianco e Jonathan Maurano tornano in scena con un nuovo lavoro in studio a firma FANALI ovvero un mondo di suoni, suggestioni, evocazioni. Un mondo che ha preso la forma di I’m in control, il nuovo disco dove l’improvvisazione e la cura maniacale per il cesello segnano produzioni affascinanti che strizzano l’occhio all’elettronica ballabile e che stuzzicano il mistero della parola, giocando con il cut up. Sono otto le tracce del secondo capitolo della band partenopea, ognuna fortemente legata all’altra in un concept annunciato fin dalla splendida copertina, frutto di uno scatto speciale dell’artista che cura l’immagine cangiante di FANALI. Essere in bilico è la cifra stilistica da cui scaturisce il loro linguaggio artistico. Abbiamo incontrato Michele De Finis per conoscere meglio un progetto che a tanti pare fuori dal tempo e dallo spazio italiano, ma che invece reclama semplicemente ascolto senza limiti di generi e confini territoriali.

Cominciamo dalle dinamiche creative del progetto FANALI ovvero le sessioni di improvvisazione. Raccontami questa forma di ricerca e l’approdo all’elettronica ballabile…
Volevamo ricreare un workflow simile a quello del disco precedente: registrare lunghe sessioni di impro per poi selezionare spunti interessanti e svilupparli dal vivo. Per una serie di coincidenze queste sessioni sono state invece poche e mirate e poi non ci siamo incontrati per lungo tempo. Questo ci ha in qualche modo portati a lavorare in modo diverso – più in produzione in studio che dal vivo –  e credo abbia avuto un ruolo molto importante quindi su quella che è diventata la proposta artistica del disco.

Cosa si nasconde dietro la scelta di usare la voce per il nuovo lavoro?
La nostra dose quotidiana di psicoterapia.
In passato tendevamo a non usare le nostre voci perché non ci sentiamo –  io meno di Caterina sicuramente – “cantanti” in senso stretto.
La storia dei limiti che diventano punti cardine si ripropone anche qui: sentivamo di farlo, ci abbiamo creduto e lavorato duramente, abbiamo disfatto più volte il lavoro e adesso siamo molto contenti del risultato con tutte le sue imperfezioni. Le abbiamo accolte e considerate parte del processo. Un disco è una foto di un momento, ci sarà sempre modo di maturare e di fare meglio.

Il suono risulta un equilibrio di melodia e rumore, dove i referenti sono nutrimento per una cifra stilistica personale ed audace. Dimmi degli ascolti che vi hanno accompagnato durante la gestazione del disco.
Siamo bulimici di musica e condividiamo continuamente nuovi ascolti tra i più disparati. Proprio prima preparavo una playlist con la musica che ascoltavo quando scrivevamo il disco e ridevo da solo per la sua eterogeneità. Se ti va, te la giro.

Direi che sarebbe interessante condividerla con i nostri lettori.
I can’t say I’m in control
è il verso che racchiude il cuore tematico del nuovo disco. C’entra l’anagrafica? C’entra quindi la maturità e con essa l’accettazione in senso lato?
I limiti che diventano cifra, di nuovo. Nessuno di noi si considera “autore di testi” e consideriamo la musica innanzitutto “un gioco serissimo”. Abbiamo scelto quello che ci è sembrato il miglior compromesso tecnico per ottenere qualcosa di interessante per noi,  la tecnica del cut up. Di fatto annoti frasi, parole, espressioni che ti colpiscono per il loro suono, e perché pensi che decontestualizzate possano prendere mille significati anche distanti da quello originale. Poi assembli queste frasi e guardi il risultato: è incredibile quanto quelle che sembravano “frasi alla rinfusa” restituiscano puntualmente una logica di fondo, un senso intimo, e perché no, ti facciano scoprire cose di te che non sapevi.
Quella frase l’ha concepita di getto Caterina perché suonava benissimo su quella parte musicale; appena l’ha pronunciata ho capito che il disco era tutto un concept su questo senso di bilico.

Se ti chiedessi di scegliere il brano più rappresentativo di questo disco e quello, invece, già più distante e spinto altrove?
I brani sono stati cesellati un millimetro per volta tutti assieme, in modo maniacale e costante, quindi mi sembrano un corpo unico.
Sicuramente se penso a com’ era Control quando è nata è un ottimo simbolo di quanto il lavoro nel tempo possa portare un brano altrove. Grande contributo in questo senso naturalmente è venuto anche dai nostri ospiti: quando un musicista con grande personalità interviene in un brano “lo cambia” sempre, rendendolo migliore.

Questo controllo è la chiave che preserva la forza del Musicista, la sua resistenza in questo caos dopato degli streaming?
Quella dell’assenza di controllo è una presa di coscienza, nel nostro caso. Siamo tutti un po’ “control freak” ed ognuno di noi ha dovuto prendere atto nel tempo che c’è davvero poco da poter tenere sotto controllo nel nostro percorso.
Come lo streaming che citi, è una questione che segue logiche che oggettivamente sono agli antipodi delle nostre scelte e capacità di comprensione.
Preciso che non c’è nessuna presunzione o snobismo in quello che dico: creare hit pluricliccate prevede una concezione e un workflow precisissimi di cui so molto poco e per i quali ho zero talento, se ne avessi magari lo prenderei in considerazione.
Personalmente so fare questa cosa solo in questo modo e la inseguo prima di tutto per necessità.

La vostra musica è un preciso schieramento. Vorrei che mi parlaste della fierezza e della frustrazione che comporta.
C’è poco di cui essere fieri credo, per il motivo di cui sopra. Non mi prendo nessun merito che non ho, è come se fossi fiero di avere fame.
Quanto alla frustrazione: la mia è solo riferita a una mancanza di possibilità di dieta variegata.
Sono cresciuto in un momento in cui andava forte determinata musica, ma c’era davvero spazio ogni sera per andare a un concerto hip hop, metal, reggae e via discorrendo. C’erano “le scene”, c’era spazio per tutto. Adesso invece è una corsa all’omologazione perché c’è domanda solo per certe cose. Mi fa tristezza che il commento più frequente che riceve FANALI è che siamo “sprecati per l’ Italia” – quando va bene – o che “siamo pazzi” a fare questa musica in Italia. In Italia c’è sempre stato e ci sarà tantissimo talento per fare tantissima musica diversa e valida. Il punto è farlo sapere a tutti.

Varie collaborazioni arricchiscono il disco. Per un musicista quanto è naturale e quanto è complicato aprirsi ed inglobare?
Per quel che ne so la musica è “interplay” – questo prevede naturalmente un dialogo con altri, e la musica è stata il più grande insegnamento che ho ricevuto su come ci si interfaccia con il prossimo.
Per il resto, come dice Dave Grohl, “la musica è tutta un grande furto” ed è vero: cerchi di prendere qualcosa da tutto quel che vedi e ascolti e lo fai tuo. Spesso vediamo un musicista suonare e pensiamo immediatamente all’applicazione del suo linguaggio nella “nostra cosa”. Non potevamo chiedere di meglio per questo lavoro del contributo di Bruno Bavota, Rodrigo D’ Erasmo, Gabrele Lazzarotti, Marcello Giannini, Pietro Santangelo.

La componente “visuale” è sempre fondamentale per FANALI. Come si muove in questo nuovo corso?
Felicemente come nel corso precedente. La “nostra” Sabrina Cirillo è l’artista visuale che si occupa di tutto l’output visivo di FANALI. Ha ancora una volta immaginato tutto quel che potete vedere sul disco e nei tapes che accompagnano i nostri concerti.
Ho sempre davanti agli occhi la scena in cui scatta la copertina: poggiamo questo bicchiere, il bicchiere lentamente si inclina e cade e Sabrina riesce a ritrarre l’istante immediatamente precedente al crollo. Se non è questa la migliore rappresentazione di questo disco allora non so quale avrebbe potuto essere.


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