All’uscita di The Lamb lies down on Broadway, il 22 novembre del 1974, Peter Gabriel ha ancora 24 anni, i Genesis sono al sesto album di inediti in sei anni, di cui almeno cinque clamorosi, sono all’apice del successo e il frontman è una star. Appena due giorni prima la band inizia a Chicago un tour trionfale negli Stati Uniti, ma giunti a Cleveland dopo meno di una settimana Peter annuncia l’intenzione di uscire dal gruppo alla fine del tour. Onora l’impegno, stando alle cronache e i bootleg, con foga creativa, tenendo la notizia segreta, prima di svelarla pubblicamente con una lettera al Melody Maker, intitolata Out, Angels out – an investigation, con un incipit che riempie d’amaro la bocca: “The vehicle we had built as a co-op to serve our songwriting became our master and had cooped us up inside the success we had wanted“. Considerazioni stemperate appena dal consueto sarcasmo britannico che gettano uno sguardo più che lucido sullo show-business e le allettanti promesse della fama: “the increase in money and power, if I had stayed, would have anchored me to the spotlights“. E infatti, dopo l’abbandono gli serviranno oltre due anni per rimettere insieme i pezzi di una visione musicale che rischiava di smarrirsi. Ma è vero, dunque, che The Lamb rappresenta il manifesto di una separazione inconsapevolmente già avvenuta? La dinamica con cui prende forma il doppio album in vinile sembrerebbe confermarlo: Peter s’impone come autore del concept e di tutti i testi salvo occasionali interventi della band cui spetta invece il compito di scrivere tutte le parti musicali, talvolta anche di registrarle senza che Gabriel partecipi alle sessions (ma avviene anche il contrario con Peter che mette parole su brani che i compagni considerano strumentali). Eppure, anche messa così, la lettura non convince, perché la storia grottesca del portoricano Rael, protagonista dell’album, che viene improvvisamente travolto da una nube, simbolicamente chiamata agnello, che trasforma New York in un mondo surreale, popolato da creature inquietanti come gli Slippermen, in cui dovrà inseguire la figura sfuggente del fratello/alter ego John, condiziona pesantemente l’andamento dei temi musicali, spesso enucleati dal canto teatralizzante di Gabriel che interpreta le molte e diverse voci dei tanti personaggi, passando, com’è nel suo stile dei tempi, dal grottesco al sublime, dalla dolcezza alla rabbia, lasciando un’impronta indelebile in ogni brano. Senza nulla togliere al valore straordinario dei restanti membri della band, strumentisti eccelsi (come lo stesso Gabriel, che qui regale le sue ultime prove al flauto traverso) e compositori visionari, che compiono l’ennesimo passo in avanti ampliando il proprio raggio d’azione, in una sperimentazione continua che resta il miglior lascito del progressive. L’agnello si sdraia su Broadway porta il fantasy nella contemporaneità ben più di quanto sperimentato con The battle of Epping forest, in cui gli scontri tra bande rivali nella periferia londinese diventavano il pretesto per dipingere un variegato campionario umano ai margini col tono di una fiaba grottesca. Qui è l’intero album a compiere quest’opera di trasfigurazione del reale (non è un caso che Rael sia l’anagramma di “real“), trasferendo l’azione dalle campagne d’Albione al paesaggio urbano di New York, i suoi locali, la metropolitana, le gang di portoricani, le figure cardine di una cultura statunitense risvoltata come un guanto e presa a schiaffi con disincanto e ironia dissacrante. La title-track prepara il terreno come all’inizio di uno scintillante musical di Broadway, introducendo temi, luoghi e personaggi, e il simbolo non cristologico dell’agnello che cala come una nube a sovvertire tutto. Nube che diventa solida nell’indifferenza dei passanti che restano presto schiacciati come una Fly on a windshield , col tetro incedere d’una storia oscura incarnata dalla chitarra violentata di Hackett. Al ritmo sincopato del drumming virtuosistico di Collins e degli accordi tesi di Rutherford, nella Broadway melody of 1974 Gabriel dipinge con voce camaleontica e suadente gli ultimi istanti del mondo fumoso e frenetico della Grande mela, in una galleria di ritratti impressionante e gustosa. Rael si risveglia imprigionato nel bozzo di Cuckoo cocoon, dream pop ante litteram per gli intrecci armoniosi di una chitarra di sciroppo vischioso e il piano barocco di Banks, mentre il flauto traverso di Gabriel soffia come il vento sferzante di una prateria notturna. Non sarebbe stata ansiogena e claustrofobica l’atmosfera e la struttura del brano successivo se non si fosse chiamato In the cage, rimarcando la perfetta intesa tra i testi di Peter e le composizioni degli altri quattro Genesis, che danno qui prova di eccezionale virtuosismo, muovendosi come un corpo unico in continui capovolgimenti e deflagrazioni, portando ciascuno una propria visione netta e distinta dello stesso poliedrico prisma, dai tempi spezzati di Collins alle tastiere fluide di Banks, alle corde vibranti e tese di Hackett e Rutherford. Una buffa marcetta accompagna The grand parade of lifeless packaging in un bizzarro vorticoso crescendo, complici le invenzioni elettro rumoristiche di Brian Eno, che turbina come apocalittica alienazione consumistica “wearing slogans in their shrine / dishing out failsafe superlatives“. È qui che Rael capisce finalmente di trovarsi ancora nella sua città, mentre la band gioca coi controtempo e le divagazioni sghembe di Back in N.Y.C., le sue battute dispari e i break fanciulleschi, la sua grinta rock e le tastiere cremose. Ma è un luogo fuori dal tempo, lo dice la chitarra arpeggiata di Hairless heart, classico di un mondo perduto, che divide il campo con una tastiera sinfonica quasi wagneriana nella sua melodrammatica potenza, condensata in appena due minuti prima di tuffarsi dal trampolino di Counting out time e gli eccentrici metodi per raggiungere il piacere, dissacrando la sfera sessuale con l’ironia estrema di Frank Zappa e un assolo bislacco di note gommose di cui si sente l’eco addirittura nell’inciso di Che calore nel primo album di Pino Daniele. La dolcezza purissima cola dagli arpeggi ondosi di The carpet crawlers con la voce più ardente che Gabriel avesse in serbo, col controcanto acuto di Collins “we’ve got to get in to get out“, per un bagliore di speranza che guida la marcia carponi di un’umanità altrimenti smarrita e vinta. Come un violino decadente le corde di Hackett aprono il sipario per The chamber of 32 doors e la sua girandola teatrale sorretta da un basso mutevole per cambi di scena inaspettati e ritornelli accorati, “I’d rather trust a man who works with his hands“, con Collins che assimila i disegni sui timpani di un Ringo Star rinvigorendoli con una tecnica energica e impeccabile. Si cambia disco per incontrare la rombante Lilywhite Lilith venuta a guidare le folle verso il tunnel della notte, al ritmo di una martellante ossessione che ricorda pericolosamente le sbarre di In the cage, dove la solitudine è un mondo di specchi in frantumi, The waiting room in cui può accadere di tutto, vano di turbe inquietanti, lamenti felini, congegni impazziti, ronzii di meccaniche infernali, che a tratti sembrano uscire dalle follie cosmiche di Syd Barrett, finché tutto viene spazzato via da una frase appena udibile sull’incalzante rullio dispari dei tamburi, soffio spettrale di anime perse. Il morbido e malinconico arpeggio di Anyway recupera una forma canzone necessaria a ridare slancio vitale al protagonista, sebbene la morte incomba in un fraseggio di piano basso tolto da Béla Bartók che fa cantare a Rael “anyway, they say she comes on a pale horse / but I’m sure I hear a train“. Here comes the Supernatural Anaesthetist è un bozzetto corale, seguito dalla lunga coda con l’arioso solo di Hackett, di ritmica levigata melodia, turbato da un finale d’angoscia vorticosa che sfocia nella commuovente The Lamia, in cui tre mostri metà donne e metà serpente avvinghiano Rael come le streghe del Dracula di Coppola, mentre Gabriel racconta in prima persona la resa rassegnata dell’uomo, con voce di sensuale delicata lascivia, ma ancora la realtà si stravolge, “with the first drop of my blood in their veins / their faces are convulsed in mortal pains“, così che l’eroe finisce per nutrirsi del corpo delle sue carnefici. Il piano di Banks tocca vertici di assoluto lirismo, sorretto da contrappunti di tastiere di passionale leggerezza, in un epico sviluppo armonico che mette in luce le sue incredibili doti di compositore e prepara il terreno per il pathos viscerale dell’assolo di Hackett. Come in un viaggio onirico Silent sorrow in empty boats conduce con lento spandersi di nubi dorate verso il perno simbolico del racconto: The colony of Slippermen (The Arrival / A visit to the Doktor / The raven), letteralmente gli uomini pantofola, metafora per l’umanità assuefatta agli indirizzi del sistema, schiava dei consumi e del sesso, inteso come strumento di controllo favorito dal potere, come predetto da Huxley ne Il Nuovo Mondo. Qui, tra i sitar assurdi di un misticismo parodiato, Rael incontra il “Dottore” che promette una cura infallibile (e non “pillole” all’occorrenza come il Robert beatlesiano) per tornare in possesso del proprio sé. liberandosi dalle pulsioni animalesche che addomesticano anziché liberare le bestie umane. Il rimedio è tanto semplice quanto bizzarro: la castrazione. Il fallo asportato sarà conservato in un pratico tubo di plastica da indossare come un ciondolo. Su un ardito ritmo shuffle la scena da teatro dell’assurdo procede serrata con scambi di battute concitate, mentre Rael si sottopone al trattamento scivolando in un delirio di angosce e tormenti, fino all’indesiderata perdita del prezioso “gioiello” nelle acque di un fiume sotterraneo. Con grande senso dell’umorismo la tensione diviene quella di un western di Sergio Leone, con la polvere del deserto spazzata dal vento di Ravine, che ha il suono di un fischio allucinato che si insinua tra le corde di una chitarra tremula. Si va verso l’epilogo, The light dies down on Broadway, ripresa del brano di apertura con testo messo a punto da Banks e Rutherford, che rivedono in minore le strofe scoppiettanti dell’inizio della storia, col protagonista ormai del tutto smarrito che non sa più cosa pensare: “is this the way out from the endless scene / or just an entrance to another dream?“. Ed è ancora la morte incombente a scuotere, quella del fratello John che rischia di annegare nello stesso fiume. Riding the scree, a capofitto come lo stuntman Evel Knievel, Rael si getta in un flusso impazzito di sintetizzatori che schizzano note in ogni direzione, col solito possente drumming di Collins, fino a domare la corrente che porta alle acque calme di In the rapids, in cerca di un disperato salvataggio, la ballata finale dell’eroe che raccoglie le sue forze con canto intimista e chitarra spennellata per poi alzarsi a urlare con coraggio, fino alla sorprendente scoperta del finale: “hang on John, we’re out of this at last / something’s changed, that’s not your face, it’s mine, it’s mine!“. Rael è John, John è Rael. I due fratelli si fondono in una nebbia purpurea hendrixiana, mentre tutto si dissolve nel gorgo pop di It, il suo luminoso tempo sostenuto, l’affilato motivo di chitarra, gli accordi frenetici come la batteria, una festa danzante, pogo sfrenato, essenza del rock, anzi, per dirla con l’ultimo gioco di parole di Rael/John/It, che fa il verso ai Rolling Stones: It’s only rock’n’roll but I like it.
Credits
Label: Charisma – 1974
Line-up: Peter Gabriel (lead vocals, flute) – Steve Hackett (guitars) – Mike Rutherford (bass guitar, 12-string guitar) – Tony Banks (keyboards) – Phil Collins (drums, percussion, backing vocals) – Brian Eno (Enossification in In the Cage e The Grand Parade of Lifeless Packaging)
Tracklist:
- The Lamb Lies Down on Broadway
- Fly on a Windshield
- Broadway Melody of 1974
- Cuckoo Cocoon
- In the Cage
- The Grand Parade of Lifeless Packaging
- Back in N.Y.C.
- Hairless Heart
- Counting Out Time
- The Carpet Crawlers
- The Chamber of 32 Doors
- Lilywhite Lilith
- The Waiting Room
- Anyway
- Here Comes the Supernatural Anaesthetist
- The Lamia
- Silent Sorrow in Empty Boats
- The Colony of Slippermen (The Arrival / A Visit to the Doktor / The Raven)
- Ravine
- The Light Dies Down on Broadway
- Riding the Scree
- In the Rapids
- It
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