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In attesa della vita: intervista a Paolo Benvegnù

Benvegnù nuova intervista

L’uscita di Piccoli fragilissimi film – Reloaded è occasione graditissima per fare quattro chiacchiere in consueta scioltezza con il fresco vincitore del Premio Tenco 2024, Paolo Benvegnù, meritatamente insignito per il precedente disco di inediti É inutile parlare d’amore, e per raccogliere il sempre vivace sguardo sinottico sul mondo di uno degli intellettuali/musicisti più rappresentativi di fine novecento/ albori del nuovo millennio. A distanza di un po’ di mesi dalla precedente intervista su queste frequenze, in cui a dire il vero è accaduto tanto di buono, diamo ancora spazio alle parole di Paolo Benvegnù, come sempre baluardo di sincerità e portatore di spunti sempre illuminanti.

Paolo buongiorno e ben trovato. Innanzitutto complimenti per questo Piccoli fragilissimi film Reloaded. Dopo vent’anni, riguardare in controluce le splendide Polaroid del 2004 mentre ricompongono questi piccoli fragilissimi film che sensazione ti trasmette? Hai definito questo reloaded come “un crudelissimo inno alla gioia”, un concetto molto affascinante e mi incuriosisce capire da dove nasce questa visione e che obiettivo si pone questa ricerca fatta con gli occhi di oggi? C’è più disincanto o c’è ancora dello stupore in questi occhi?
C’è totale stupore, anche perché poi nello svolgimento di questo disco, che è stato ovviamente tutto risuonato, ci sono 25-30 persone, ho perso il conto, che hanno fatto quello che volevano. E perciò in questo senso mi dà la gioia, perché è stata una risposta, un’adesione a queste canzoni che fanno quel poco che devono fare, cioè sono delle canzoni molto semplici. Però l’entusiasmo che si è riversato è stato contagioso. Mi piacerebbe dirti che ho calcolato qualcosa, ma non ho calcolato nulla, ho semplicemente guardato che questa cosa si formasse e poi ho fatto il mio piccolo. Perciò in questo senso è un inno alla gioia, crudelissimo perché comunque va a toccare delle tematiche che secondo me per gli esseri umani sono sempre le stesse; per me che sono NON risolto, ad esempio una canzone come Brucio in me ha ancora un valore notevole. Quando uno si pone di fronte alle cose in relazione al mondo e comprende che c’è qualcosa di più grande, anche se sembra molto semplice come concetto, in realtà sottende a tutto un mistero che è quello che noi cerchiamo di sondare ogni giorno, ogni essere umano nella sua maniera. E perciò quello che è crudelissimo è che nella scrittura dei brani ci sono degli aspetti molto crudeli, al di là dell’idea consolante che ci può essere in alcuni testi, e penso a Cerchi nell’acqua oppure a É solo un sogno. Però, appunto, è solo un sogno; è crudelissimo sapere che la gioia possa essere solo un sogno.

Questi Piccoli fragilissimi film non hanno preso polvere in tutti questi anni, hanno continuato a scintillare. É oggettivo il fatto che il tempo che è passato abbia poi conferito a queste canzoni una posizione granitica, tutt’altro che fragile, nel nostro panorama. Secondo te qual è l’aspetto più intenso e significativo della fragilità?
Non so, però secondo me quel disco, non all’epoca, ma oggi può sollevare una considerazione rispetto al concetto di fragilità. Per me in questo caso fragilità è arrendersi alla vita che succede e questo non significa essere passivi; è semplicemente che alcune cose non puoi controllarle e la nostra volontà di potenza è di fatto invece quello che guida il mondo in questo momento. Mi sembra che in questi brani ci sia una sorta di antitesi rispetto alla volontà di potenza corrente e forse sotto questo punto di vista può essere più interessante e importante di allora. Penso, tra l’altro, che in alcune cose scritte vent’anni fa ci siano disegnati degli scenari che oggi vediamo verificarsi. Secondo me ogni tanto si ha bisogno di vedersi dall’altra parte, noi siamo sempre persi, corriamo giorno per giorno nell’utilità delle nostre azioni, questo è già un rovinare all’inutilità. Mi viene da pensare che mai come in questo momento, dove veramente tutto è teso all’utile, magari questo possa sollevare una riflessione, per poche persone ovviamente. Io mi sento già così privilegiato di poter suonare queste canzoni, di poter esprimere insieme ai miei compagni queste cose. E perciò è ovvio che tutto si muove da piccole enclave, ma sono enclave che magari nel tempo possono trovare delle risposte e trasmetterle alle generazioni future. Non parlo di me, che appunto sono poco risolto, ma qualcun altro può prendere uno spunto per dare veramente delle informazioni coerenti.

Paolo, quale di queste canzoni, vent’anni dopo, può essere vista come un sequel della versione originale e quale invece può essere intesa come un prologo? Intendo dire, dove pensi di essere andato a denudare quello che era il corpo originario e dove invece sei andato a coprire, se ricorre questo caso?
Credo che in Io e te Malika abbia fatto qualcosa di veramente stupefacente; ha una capacità di calarsi nel senso delle cose che è qualcosa di incredibile e allora a me viene da pensare che quello sia mettere ancora più a nudo una realtà di incoerenza come è la scrittura di quel brano. Io ho cercato di non coprire nulla, anzi più che altro io non ho fatto veramente niente, ho lasciato che le cose andassero. Sotto questo punto di vista c’è filologia con i ritornelli de Il mare verticale. Ho veramente lasciato che le cose passassero, andassero dove dovevano andare, a seconda della loro energia. Mi viene da pensare che in realtà un prequel c’è ed un sequel c’è; la prefazione è legata a quei brani inediti e penso a Preferisci i Silenzi e Le gioie minime, che sono dello stesso periodo e che non erano state usate per quel disco, oltre a dei brani che sono su cassetta e anche quelli fan parte dello stesso periodo. Invece la postfazione è legata ad un brano che si chiama Isola Ariosto, che chiude il disco e che è per la prima volta una specie di laboratorio dei Benvegnù che hanno improvvisato tutto. Abbiamo fatto dei tagli a caso e io ho trovato una narrazione su quella improvvisazione. Quello per me è una cosa che non avevamo mai fatto e perciò è come andare a spostarci un po’ più avanti.

Proprio riguardo questi featuring, che sono poi un elemento centrale di questo disco, hai giustamente evidenziato che non si tratta di una summa di canzoni con ospiti, ed in effetti qui percepisci quasi degli sposalizi, le cui foto ricordo con il loro sfondo di affinità elettive splendono terresti sul comodino vita natural durante. Mi interessa capire come sono nate queste collaborazioni, se già conoscevi tutti gli artisti presenti e se ci sono state delle piacevoli scoperte. Io ho scoperto Lamante che non conoscevo e l’ho trovata veramente fantastica…
Effettivamente Lamante è veramente fantastica. Non c’ero quando ha registrato perché stavo facendo altre cose, ma sono rimasto folgorato dalla sua maniera di entrare in quel brano, mi ha stupito molto. Però devo dire c’è stata tanta stupefazione in generale; ad esempio mai mi sarei aspettato che i Fast Animals e Slow Kids provassero così piacere a fare un brano come Suggestionabili. Così come non pensavo che Fresu ci rispondesse nemmeno quando gli abbiamo chiesto se voleva fare delle cose su Il mare verticale. È incredibile la generosità ricevuta, ma regalata veramente con gioia. Io, che sono sempre molto chiuso, ho avuto come l’impressione di essermi perso molto. Ancora non sono bravo ad abbracciare l’altro, evidentemente. Forse questa cosa poteva succedere prima e sarebbe stato per me più formativo ancora, perché poi ho dovuto imparare a cantare come tutte queste persone ed è stato bellissimo, rientrare nelle loro modalità di espressione, è stato qualcosa di nuovo, completamente nuovo per me. In più c’è da dire che i miei compagni si sono registrati da soli praticamente e perciò è stato bello, è stato un flusso di energia che io non ho controllato e sono stato veramente felice di questa cosa. Non riesco ancora a capire come sia successo, ma è andata così.
Paolo, nella precedente intervista mi raccontasti di provenire da una formazione di scuola generalista, guardando ad artisti come Peppino Gagliardi; a proposito di collaborazioni, se tu dovessi scegliere un artista del passato, magari che non è più vivente oppure con il quale avresti avuto piacere o avresti piacere di collaborare, ti viene in mente qualcuno che avresti collocato tra questi Piccoli fragilissimi film?
Ovviamente ci sono dei numi tutelari. Mi sarebbe tanto piaciuto fare qualcosa con Fossati, anche se le cose che scrivo io non sono così belle, perciò sarebbe stato difficile riuscire a convincerlo. Ho avuto la fortuna di conoscere tante persone, però mi manca di non aver conosciuto Battiato, che per me è stato un personaggio molto divertente, per quello che ho evinto, e perciò questo rappresenta un rimpianto, l’essere stato suo contemporaneo e non essere riuscito a intercettarlo. Però se ti dovessi dire veramente una cosa anche un po’ bizzarra, mi sarebbe piaciuto fare É solo un sogno con Peppino Gagliardi, non sto scherzando. Per me Peppino Gagliardi è stato formativissimo, era un po’ il Charles Aznavour italiano. E un po’ mi spiace non poterlo fare. Gagliardi era un cantante prodigioso e anche un uomo con uno sguardo molto bello e incarnava la terra da cui veniva.

Paolo, tra i formati fisici di questo disco figura anche un box set in edizione limitata e autografata, contenente oltre al vinile anche una musicassetta, con inediti di quel periodo. Puoi dirci qualcosa in più riguardo questo materiale inedito e perché poi la scelta vintage della musicassetta, che per un orgoglioso boomer è una secchiata di nostalgia pura?
Allora, all’epoca io avevo un registratore di 8 piste ed ero in questa stanza a Firenze, una stanzina piccolissima, dove registravo da solo questi brani, cioè suonavo in questa stanza con un microfono, un mixer piccolissimo, il registratore ed il minidisc. Non ero neanche molto bravo, non che adesso lo sia. Li ho poi mixati su un minidisc che non ha una qualità eccellente. Io e i ragazzi di Woodworm abbiamo pensato che la cosa più vicina alla qualità del minidisc fosse la cassetta. E allora l’idea è nata dal fatto che per le cassette qualcuno ha ancora delle piastre, e visto che il minidisc davvero non si può più usare, (quello sarebbe stato da hyperboomer, no?) la scelta è stata consequenziale.

Di che tipo di materiale inedito si tratta?
Piccoli fragilissimi film era un disco di 11 pezzi, però c’erano tantissimi outtakes, ad esempio il brano con cui siamo usciti l’anno scorso con l’EP che si chiama Non esiste altro fa parte di quel periodo lì; poi c’erano anche un sacco di altri brani, perciò su questa cassetta ci sono dei mix impossibili di brani che, tranne forse Il vento incalcolabile del sud poi entrato in un EP, all’epoca non sono state mai sentite. Ad esempio, c’è un pezzo che si chiama Addominali e che è una stupidaggine, però mi ricordo che la cosa divertente è che all’epoca facevo un sacco di cose brutte… (ride, ndr)

Parliamo del tour che si sta completando in questi giorni di novembre dopo aver toccato Bologna, Torino, Firenze, Milano, Verona e Roma… ovviamente ci auguriamo ci saranno delle aggiunte geograficamente più utili. Che tipo di dimensioni hai immaginato sul palco per questo tipo di tour?
Tornando all’epoca del disco, diciamo che a quel tempo prima di arrivare in questa stanza a Firenze, dormivo in macchina e perciò noi partiamo da questo presupposto: partiamo immaginando di essere ancora in quell’auto alle sei di mattina e c’è quello della polizia locale che ti bussa picchiettando sul finestrino e che ti sta facendo una multa perché non puoi dormire in macchina, e nonostante questo tu apri la portiera, concili come si dice, prendi la multa che un giorno forse pagherai, e ti stupisci del fatto che sei sveglio in un posto che non conosci e non sai cosa succederà subito dopo, a brevissimo termine, a medio termine. E perciò c’è tutto un ventaglio di possibilità che si aprono. In realtà Piccoli fragilissimi film è stato veramente questo all’epoca, era veramente così. Io pensavo i pezzi in macchina e poi quando potevo, trovavo delle situazioni anche rocambolesche per stare un mese in una casa pagando 100.000 lire al mese. É esattamente questo. Noi partiamo dal fatto che ci svegliamo e ci stupiamo del mondo. Pur prendendo una multa. Anche una multa può essere miracolosa, per dire.

Parliamo del Premio Tenco 2024 che ti ha visto recentissimamente protagonista. Nella nostra ultima intervista di gennaio scorso per É inutile parlare d’amore discutemmo di Sanremo e dei punti di contatto che c’erano stati nella tua carriera con quel contesto. Non sarà a febbraio, ma essere salito su quel palco a ottobre è decisamente più in linea con la dimensione di cantautore, poeta e intellettuale di eccellenza che incarni. Quindi una domanda secca, forse banale, se vogliamo, ma la cui risposta molte volte tendiamo a darci per scontata: in questo momento sei più felice o soddisfatto, intendendo la felicità come uno stato estemporaneo ed inebriante e la soddisfazione invece come l’apice di un percorso?
Io sono incredulo e in tutta franchezza sono incredulo e stupefatto. Sono incredulo e penso che non sia capitato e che non capiterà. Perché i limiti sono troppo ampi. Allora mettiamola così. Se entro nella realtà, se vado nel crudo pragmatismo, questa cosa mi ha riempito di stupore e per certi versi mi ha responsabilizzato ancora di più, nel senso che non mi sento all’altezza di una cosa del genere. Questo è davvero il mio sentire. Parlandone con i miei compagni, che sono stati molto contenti, noi eravamo veramente felici del fatto di essere arrivati per la settima volta nella cinquina. Consapevoli del fatto che per noi è un privilegio, perché ci sono tantissimi altri progetti, forse anche migliori, che non hanno la fortuna di avere un ufficio stampa meraviglioso, un’etichetta che li segue e delle persone che insieme vogliono fare un percorso. Questo fa tutta la differenza del mondo, perciò è una lotta tra privilegiati, ecco, e questo secondo me bisogna metterlo in luce per bene. In più c’è un’altra cosa da dire; io mi sento parte di una moltitudine, anche di pensiero, e in quella moltitudine ci sono tutti quegli splendidi artisti come Alessandro Grazian, Cesare Basile, Giuliano Dottori, Marco Parente, Alessandro Fiori, Giulio Casale. Ce ne sono una caterva e di quella generazione lì, che sta a cavallo tra il cantautore classico e le canzoni che diventano successoni e tormentoni, ecco lì in mezzo c’è stato molto di misconosciuto. A me viene da pensare che in questo caso le persone che hanno votato per la targa Tenco, abbiano voluto abbracciare questa storia così poco raccontata, così sconosciuta di tutte queste persone. Cioè io mi sento sinceramente imbarazzato, mi vergogno quasi, a rappresentare questa eccellenza di cui ti ho parlato prima. É così, non è una risposta secca la mia, la tua è una domanda secca, la mia è una risposta lunga perché secondo me è doveroso dirlo, ed è veramente quello che sento.

Se dovessi scegliere tra queste canzoni del disco, compresi gli inediti chiaramente, quella che porteresti con te in un viaggio interstellare, quindi quella che potrebbe farti compagnia per sempre? 
Allora, mi viene da pensare ad Isola Ariosto, l’ultimo brano del disco, dove ho trovato delle cose da dire e che poi viene chiusa da Max Collini. Io attendo, ancora sono in attesa della vita e lui la chiude con una poesia di sua mamma, ex operaia, poetessa e partigiana, che parla invece della ciclicità, dell’impossibilità di non riuscire a uscire da quello che è lo schema ripetitivo e senza scampo del susseguirsi di ieri, di oggi ma anche di domani e dopodomani. Mi sembra una bella summa per raccontare un essere umano. Questo è proprio il brano che porterei con me ovunque.

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