Il caso. Le coincidenze. Tutto gioca un ruolo importante nei nostri incontri. Alcuni si dimostrano essere inconsistenti. Altri, fortunatamente, sono baciati da un’aurea di sacralità. Una sorta di rito magico che si instaura tra le traiettorie di chi si mette in gioco. Così definirei il mio incontro con Nina: un ingenuo gioco di sfioramenti, laddove l’anima lo richiede. Come ogni rito, ha il dono di perpetuarsi. Così è stato questa sera. Il Goganga è un locale ambivalente. È estremamente curato da un punto di vista estetico ed è capace di creare atmosfere particolari e incantevoli. Di questa scelta ne risente parzialmente l’aspetto musicale, dato non di poco conto se si considera che nasce come locale per performance live. Questo richiede un’attenzione notevole da parte degli artisti. Nina sale sul palco e la sua concentrazione è immediata e tangibile. Sale sul palco ed è un fiume in piena di tecnica e arte. Mai saccente, mai eccessiva. Ma pura e impeccabile.
Accanto a lei un ensamble d’eccellenza. Max Zanotti (Deasonika) e la sua chitarra sono l’estensione della voce di Nina, il suo contraltare maschile, il suo appoggio e la sua sfumatura. Francesco Tumminelli (Deasonika) si raccoglie intorno alla sua chitarra ad arricchire ogni pezzo. Gionata Bettini (Deasonika, Emoglobe) ai synth è la chiave elettronica del concerto. Paolo Pischedda (Marta sui tubi) al piano è il tocco di grazia aggiunto. Un alone nero riempie il palco a conferirgli austerità e competenza. Un’eleganza che si lega in maniera indelebile al suo riflesso artistico, emanato a piene mani per tutto il Goganga. Nina appare donna più che mai nel chiudere un cerchio tutto al maschile. È femmina. Concede di sé un’immagine che profuma di bellezza e saggezza. La saggezza delle madri, tramandata di figlia in figlia. Nina è suadente. È passione che si traduce in una voce capace di ogni cosa. Sa sussurrare ed entrare nel petto. Sa gridare. Un urlo strozzato ed integro. È la delicatezza nel confronto con la forza e la fermezza di Max. Nina è morbida quando il suo corpo non trattiene più la voce e la musica si fa danza. Danza fluida di mani parlanti che accarezzano il microfono con dolcezza e sensualità. La suggestione è un gioco sul palco. I pezzi di The Black Mill si susseguono in un rigenerarsi continuo di ambientazioni differenti ed egualmente efficaci. Talvolta tutto si fa ovattato, uterino (The erased, let the rain fall, sign o’ the times). Talvolta si fa vento e soffia con decisione sul pubblico (Don’t forget m.l.a.t.r.). Talvolta si fa passi di un cadenzato tango di intenti (Where are you). Talvolta si fa teatrale. Talvolta si fa teatrante (Miss x). Talvolta si fa energia universale sprigionata in nuove vite (Universe). Talvolta tutto si fa arma bianca e penetrante. Inoffensiva (Damn you). E nella stessa altalena di immagini si inseriscono le cover. Drinking in L.A. dei Bran Van 3000 è un istante di ironia contagiosa. Mojo Pin di Jeff Buckley è una meravigliosa parentesi solo piano e voce. Gli occhi di lei a cercare il piano. I suoi piedi a trovare il ritmo. Solo loro e nulla intorno. Gli occhi di Nina diventano protagonisti in Glory box dei Portishead. Parlano. Comunicano. Esprimono ogni sentimento. La voglia di essere lì su tutti. E quando uno ad uno scendono dal palco percepisci ogni atmosfera scorrerti nelle vene. Una sorta di giostra. Un cinematografo che proietta ripetutamente scene di un film che non ti stancheresti mai di guardare.