Quando ho sentito la prima volta questo album autoprodotto, registrato anche male, senza particolari contorsioni musicali, continuo nel suono, quasi ossessionante, dilatato, cupo, ho avuto una sensazione strana. Francesco Falorni e il suo spleen. Il suo essere disincantato eppure spulciare tra il niente per cercare l’incanto. Che forse per molti sarà anche dolce e romantico. Ma io lo trovo selvatico e scettico, voglioso, più che fiducioso. Sette brani allungati di dolore fatto per essere insopportabile. Lasciato così, grezzo, non trattato chimicamente. Quel dolore che tu non vuoi mai sentire, né provare, né trovare. Che ti dà sui nervi. Che pensi: è una lagna. Eppure. Eppure. In quell’angolo che sai, che ti si rompe ogni filo di ragione, che realizzi che le congetture sono ben diverse dalle certezze, dalla bellezza, dalle premure, ascolti uno di questi brani, acerbi, artigianali, e pensi che c’è davvero poesia nella debolezza. Nell’assenza di armature tecniche da progetti musicali a breve termine. Una voce proporzionata al senso, a mio avviso estremamente bella. Forse esagero nel dire che mi ricorda Chris Cornell a vent’anni, se mai avessi avuto il piacere di conoscerlo allora. O Max Zanotti, sempre ventenne, che canta un brano di Alela Diane. I testi ereditano l’estrema schiettezza alternata a fantastici nonsense di gruppi come Verdena e Marlene Kuntz. Giochi di parole, sussurrati. Su una voce controllata, che allunga le note finali, spesso. Le allunga. Le allunga. Perché su quel senso si deve finire il fiato. Si deve far morire un respiro. Ricorda il veleno depresso dei Low. Il perenne senso di perdita. Non a caso la terza traccia è la cover di Murderer, proprio dei Low. Ma già dai primi brani, Precipitare e Il Finale, è netta la necessità di perdersi, di dimenticare, di avere ancora sete, fame. L’inetto e il senso di pietà che in pochissime righe si palesa, la capacità di sintesi, l’uso accurato delle parole. In Harol & Maude molto forte la frase iniziale: “Io non ho mai vissuto, ma qualche volta sono morto.” Provocatoria, raggelante di lucidità. Rivelatrice di quanto detto, dell’essere tagliente per nascondere i propri tagli. Di mostare le ferite perché gli occhi possano guarirle. Casa dolce casa ha di fondo quella denuncia quasi ironica e folle di Vasco Brondi, ma per assurdo più elegante nell’essere cruda. “Cenere e chiodi e’ il pasto che lascerete per me.” Laconica. Fotografica. Per finire con L’Asociale, che parla del reagire all’abbandono con la voglia e la necessità di bastarsi. Di non vivere per nessuno. Eppure la negazione segue sempre l’esistenza di ciò che neghiamo.
Questo il fascino di Francesco Falorni, Atterraggio Alieno. L’incoerente e comune lotta tra ciò che si odia perché si è troppo amato.
Credits
Label: Autoprodotto – 2009
Line-up: Cristiano Godano (voci, chitarre) – Riccardo Tesio (chitarre) – Luca Bergia (batteria) – Gianni Maroccolo (basso) (batteria)
Tracklist:
- Precipitare
- Il Finale
- Murderer (Low Cover)
- L’Inetto
- Harold & Maude
- Casa Dolce Casa
- L’Asociale
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