Un antro illuminato dai cristalli ed abitato da libri vestiti di stoffa e tocchi, di carezze di ciglia e sospiri, è il varco da attraversare per addentrarsi in un ventre di specchi ed impalpabili organze, luogo dentro cui vegliare, consegnando la fretta all’oblio, la deiscenza di una bellezza, il suo sedurre lasciando erompere dalle proprie viscere l’essenza. Tra laterizi erosi dagli istanti voraci e lampadari che, come altalene, dondolano gocce di vetro e passato, tra drappi di tessuto che esaltano la nudità impudica delle pareti e degli archi, s’apre una sala custodita dalla terra e scelta perché culli il gusto del sentirsi sospesi e tesi tra momenti perturbanti, capaci di sostentare e destabilizzare.
Due momenti, eternati dal sentirsi addosso un’insaziabile brama. Due tempi, per imparare il ritorno come possibilità del passo in avanti. Bastano due momenti ad Alessandro Raina e Leziero Rescigno, insieme corpo di grazia ed eleganza dell’Amor fou, per far sì che si apprenda la necessità della discesa per giungere e congiungersi all’altezza. Nei gesti di entrambi si compie la metamorfosi di una dimensione elettroacustica, diviene moto dell’anima che si appropria del suo suolo, che scopre in sé, nel suo essere senziente e rammemorante, nel suo esser-ci il suo fondo fondante.
È dalla fine che ha inizio La stagione del cannibale, è da una fine. Nell’oscurità riflessa da una parete di specchi una luce fioca e calda disegna ed accende i contorni di una schiena china su un pianoforte. L’intuizione delle mani inghiottite dal buio e dal petto trova la sua conferma negli occhi che le scoprono, come illuminate onde di carne, lambire i tasti ed accompagnare un vento di parole e carta che dilaga dalla bocca e dalle mani di Raina. Fogli leggeri abbandonano la carezza e la stretta delle sue dita per cadere e farsi contatto con la terra, candori, che pure non ignorano il peccato, sparsi sul pavimento come vesti sottili di un corpo nudo, di una nudità necessaria.
Tra la delicatezza dei gesti sapienti e la sericità di suadenti baci di suono, avanza la coscienza di Tutta la memoria del mondo, del suo riposare, viva e palpitante, sulle tele, tra i bianchi e i neri delle fotografie, dentro sguardi e voci, tra righe e pellicole. Incede Tutta la memoria del mondo, ricordando il suo nascere nell’uomo che si fa per lei dimora, il suo sorgere lì dove l’accoglimento si dischiude, il suo fondarsi su passi lenti che non si stancano di tornare su di sé, in sé. Gli Amor fou scelgono di evocare, affinché la memoria venga provocata, perché si occasioni un ricordo che accetti il rischio del tradimento e del fraintendimento. Consci del fatto che le evocazioni sono imperituri custodi di echi infiniti, inesauribili, sanno che una storia e la Storia le si onora con una narrazione che presentifica senza voler definire… finire, una narrazione piuttosto desiderosa di com-prendere e capace di far accadere gli eventi ben oltre le date fisse sui calendari. Così evocano. Evocano le città divelte, le strade straziate dai fuochi e dalle lame, le acque che si fanno veleno, le contraddizioni e le ribellioni, le corse verso il mare e una libertà sulla quale ci si interroga senza posa. Evocano gli amori che vestono di ferite, che esaltano i lati meno nobili del cuore, per provare a vedere se qualcosa riluce anche negli anfratti più miseri dell’anima. Danno voce a perdizioni e perdite, a passioni e pene, a Sussurri e grida di uomini, tessuto di un amore tanto quanto di una società. Raccontano, tra i riverberi di una musica affilata, ferite aperte eppure ignorate, con la consapevolezza che c’è un senso nell’assaporare il dolore, un senso che si perde nella pochezza, nella meschinità di chi annaspa desiderando solo afferrare una scheggia di quieto vivere con una voracità solo apparente, maschera di un’accidia che ignora però il valore del vizio.
Ricordano e raccontano sensi, li pronunciano, cantano, suonano Alessandro Raina e Leziero Rescigno, con la gola e le mani, con le corde e i tasti, con i teli e le luci, e ci mostrano il tempo che deve venire, così come quello che accade nel quotidiano di oggi, nel passato che ci appartiene e a cui apparteniamo. Ricordano e raccontano, insieme a Paolo Santagostino che con gli occhi sa dare agli occhi piacere, raccogliendo gli sguardi che hanno attraversato e segnato tempi e luoghi, mostrando come la bellezza trascenda ogni tempo ed ogni luogo non per ignorarli o dimenticarli, ma per eternarsi sopra il loro scorrere e mutare, per esserne il presente, la presenza costante… la sostanza che resta. La luce delle immagini attraversa la musica e chi ne è origine, è una trama tessuta con amore che tutto avvolge e penetra, una trama di visioni aderenti come intime carezze. È come se Santagostino avesse intuito il respiro più profondo della musica, il battito della sua anima e lo avesse consegnato e riposto nelle immagini, facendone il loro ritmo… le canzoni e le visioni, occhi socchiusi e sguardi aperti, fluiscono e con-fluiscono donando il medesimo fremito, lo stesso palpito: quello che le anima e raggiunge l’anima.
Scivolano sulla pelle e si ancorano alle viscere le voci e le luci che iscrivono nel sangue storie di irrequietezze e piogge di lattee piume, storie di rivolte e prese di coscienza, di corpi mordenti carne ed oppio, di membra avvinte lungo i cui bordi si compie la storia di un maggio non qualunque… storie di un Ragazzo triste e de Il carrozzone che, nell’essenzialità, s’accendono di fulgida bellezza. Storie, ricamo di un volto da immaginare che, sfogliando sorrisi sulle riviste, assapora il nodo alla gola, quello che attanaglia nel momento in cui si scopre il proprio desiderio impotente anche quando, o proprio quando, si realizza… quel desiderio che già alla sua alba intravede la propria fine ineluttabile e senza gloria, che conosce il terrore davanti ai quadranti che racchiudono le corse degli attimi privi di pietà, quel desiderio che nonostante tutto non può che essere assoluto, totalizzante, implacabile.
Storie nostre, quelle che gli Amor fou ci somministrano con la dolcezza dei graffi e furiose carezze. Storie da raccontare facendone poesia finché non subentra una pace di silenzio e vino rosso, in cui vegliare la notte fino ad una nuova notte. E torna l’ora di scendere verso Due cuori, una dark room per ritrovarli culla di suono e senso.
“Leggendario era Xanadu dove Kubla Khan volle che un immenso palazzo dei desideri si erigesse” (S. T. Coleridge)… un luogo di incanti ed aneliti è quello che adergono Raina, Rescigno e Santagostino travalicando e nientificando limiti. Il piacere degli occhi canzone dopo canzone trabocca, nutrendosi delle immagini disegnate e invocate dalle parole, lingue di aria e carta da prendere tra le labbra dalle labbra, si alimenta delle fughe degli amanti che vagano verso cascate d’acqua viste in controluce su una lampada, degli sguardi in 16 mm che raccontano I ritorni e l’urgenza del mettersi alla ricerca. Nel centro della sala un corpo di pelle luminosa e trasparente adagiato su un divano di velluto amaranto, uno schermo che fende l’oscurità perché dalle sue lacerazioni fioriscano visioni capaci di farsi evento ed avvento di bellezza, all’unisono col canto della gola, delle chitarre e del piano.
In alcuni dialoghi platonici la cura di sé si fonde col precetto delfico del conosci te stesso, la medesima fusione avviene tra i suoni e le forme de La stagione del cannibale, giacché in questa musica e grazie ad essa ci si cura di sé, apprendendo come proprio nella cura divenga possibile una conoscenza.
La fine è di nuovo un inizio, la bellezza ha consegnato alla carne e all’anima un piacere totale che ogni giorno ri-accade dentro… non c’è parola che possa davvero nominarlo, solo la sensazione cosciente di chi lo ha accolto sotto la pelle, nel ventre, in petto, ritrovandosi innamorato da una meraviglia indelebile. Porto i miei passi tra i vicoli e, di già, “sento la nostalgia di quei riti privatissimi che ora non celebri più dentro me contro me”, ma nel medesimo istante so che quei riti restano.
“La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia.” F. Nietzsche
Ad esprimere fremito e gratitudine: per l’abbandono al sogno fra le mani di queste parole, dentro all’immaginario restituito ed intuito con tanta sensibilità, con tale senso della meraviglia.
Il fascino della scrittura che osa rimandi a confondere.
Una pagina di diario intimo per un gioco sonoro colto, ma con garbo e leggerezza.