A volte basta poco perché l’orizzonte di attesa verso un album in uscita cresca a dismisura. Se poi ti chiami Arctic Monkeys e ad appena 23 anni hai già sfornato due album del miglior indie rock inglese degni dei gradini più alti delle classifiche mondiali, quell’attesa di certo si moltiplica. Se poi un numero di NME di fine Maggio parla di una band radicalmente cambiata con tanto di foto scattate in quel di New York a testimonianza, ecco che il terzo disco delle Scimmie diviene tra le uscite più attese dell’anno. E questo nuovo Humburg sembra proprio una di quelle caramelle alla menta durissime, che ci vuole molto tempo a finire, ma anche uno scherzo, un trucco, qualcosa che appare come in realtà non è. E di fatti la prima sensazione che ti pervade durante l’ascolto è sicuramente spiazzante, qualcosa che non ti saresti mai aspettato e che suona molto meno immediato di quanto la band di Sheffield abbia mai proposto prima. Humburg è un disco caratterizzato dalla particolare attenzione verso un sound che risulta oscuro, meditativo, spesso nervoso, e certamente lontano anni luce dall’immediatezza dei riffoni di chitarre che hanno fatto ballare tutto il mondo. E l’ombra del nuovo continente non è mai stata così visibile nell’orizzonte musicale delle Scimmie Artiche tanto da spingersi, per registrare i brani, in uno degli ambienti più ostici che la natura ci abbia riservato sulla terra: il deserto. Proprio il Mojave, nella zona campeggia quel Joshua Tree presente nell’immaginario musicale di ogni amante del pop. L’idea in verità è arrivata dal maestro Josh Homme, produttore e mentore di buona parte del disco, ma i quattro inglesi, ammiratori delle sue famose “desert sessions”, non si sono poi fatti pregare più di tanto, rimandando alla calma di New York e al solito produttore James Ford, nonchè metà dei Simian Mobile Disco e batterista live per i Last Shadow Puppets, la rifinitura del tutto. Una certa tenebrosità intima e riflessiva si può notare già dal pezzo di apertura My Propeller, che accumula tutta una tensione che sembra non dover scoppiare mai. Ed il sound appare molto più legato alla tradizione americana, dispiegandosi soprattutto nel basso presente in prima linea e nelle distorsioni delle chitarre sovraincise, compatte e corpose, impregnate di frequenze basse, che talvolta si lanciano in fraseggi e assoli che fendono l’atmosfera e spesso costruiscono muri sonori fondendosi in tutt’uno con basso e batteria (Potion Approaching). Un sound che si rifà molto al rock, con quel tocco di psichedelia ’60-’70 e la volontà di creare quelle atmosfere un po’ oniriche grazie alle chitarre pulite in riverbero o alla novità dell’organetto. La voce di Alex Turner, che sembra venire da lontano, appare molto più matura. La stessa maturità che traspare nei testi, più immaginari e astratti rispetto al passato. Certamente evidente la volontà di una ricerca più profonda sul sound e sulle strutture dei brani che però, spesso, si slegano così tanto che quasi ci si perde, inerpicandosi in bridge dilatati e stranianti che ben poco si accordano con le altre parti. E se la pesantezza dei riff nervosi di Dangerous Animal quasi stanca, Fire and Thud è uno di quei brani che ad un primo ascolto appaiono del tutto statici e improduttivi, ma una maggiore attenzione può rivelarne le interessanti soluzioni armoniche. La volontà di rallentare, di produrre delle ballad semplicemente pop, un po’ alla solita maniera, rimane una costante ed una certezza. Se Cornerstone sente più l’influenza dell’altro progetto di Turner (Last Shadow Puppets) mostrandosi meno sdolcinata del solito e più raffinata, Secret Door richiama quella direzione intrapresa dai maestri Franz Ferdinand e rimane tra i pezzi migliori a livello compositivo, veramente un piccolo gioiello dallo splendido sound e dalle melodie dolci e aggraziate. Pretty Visitors è forse il brano che mostra di più la fusione tra i Monkeys vecchi e quelli nuovi: strofa con riffone di chitarre a velocità supersonica che rallenta e cresce di intensità e maestosità, l’organo che rende tutto più desolante e la batteria che scandisce solennemente i tempi fino al bridge in cui anche le chitarre si spingono nel tratteggiare riff più oscuri e misteriosi. Dal piglio decisamente più rock, Crying Lightning ricorda sicuramente di più il sound di sempre e, probabilmente non a caso, è stato scelto proprio come primo singolo della novella release. Humburg è un disco che richiede un ascolto accurato, senza superficialità, ma che comunque non convince del tutto. Nonostante sia apprezzabile il tentativo di rinnovare il sound e l’abituale tecnica compositiva, a volte il quartetto inglese si spinge davvero troppo oltre in una ricerca che diventa più frenesia di una volontà di cambiamento d’immagine piuttosto che tentativo di sperimentazione o esigenza di ricerca personale. Che sia questo il caro prezzo da pagare per non essere considerati tra le solite band pop semi-adolenziali usa e getta?
Credits
Label: Domino – 2009
Line-up: Alex Turner (voce, chitarra) – Jamie Cook (chitarra) – Nick O’ Malley (basso, cori) – Matt Helders (batteria, cori)
Tracklist:
- My Propeller
- Crying Lightning
- Dangerous Animals
- Secret Door
- Potion Approaching
- Fire and the Thud
- Cornerstone
- Dance Little Liar
- Pretty Visitors
- The Jeweller’s Hands
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