Mercoledì 2 Settembre, ore 23 circa. Silenzio. Poca luce. Inizio della notte. La città comincia ad addormentarsi, fino a sembrare morta. Così comincia un’intervista ad Emidio Clementi, anima di voce e basso alla guida dei Massimo Volume. Nel 2002, dopo lavori discografici divenuti punti cardinali per la musica di un certo livello (va detto) in Italia, la band si scioglie. E una fine che era un graffito sul muro del passato diventa poi un ritorno. Dal Traffic Festival del 2008 al primo disco live, Bologna nov. 2008: il percorso continua, contro il muro, sfondandolo con la memoria di ciò che era e ciò che è stato… verso un futuro che vedrà la produzione di un nuovo capitolo in studio. Le mani nude dentro gli anni, con leggerezza e lucidità d’analisi, tirano fuori Parole… nell’assordante vuoto della notte. (Qualcosa sulla vita e l’inedito Esercito di santi sono in streaming autorizzato; foto di Serena Remondini; si ringrazia Manuela Longhi – Mescal)
I Massimo Volume hanno vissuto il loro ritorno in un contesto live (il Traffic Festival 2008). Il nuovo disco è un live, Bologna nov. 2008. Il titolo è composto da un luogo e da una data. Semplice. Diretto. Evocativo al tempo stesso…
Spero che risulti evocativo. Per me era importante che, tra le varie date live del tour invernale, la registrazione appartenesse alla data di Bologna. E’ una città a cui siamo particolarmente legati e inoltre è stato un concerto molto bello, almeno per noi. Le date sono un punto ricorrente nelle canzoni dei Massimo Volume, appartengono alla nostra poetica. Certamente, come hai detto tu, abbiamo puntato soprattutto sulla semplicità che poi richiama altro.
Secondo quali criteri i brani sono stati selezionati?
Essendo un disco senza sovraincisioni, abbiamo fatto un calcolo della resa sonora, dell’esecuzione. Quindi i criteri sono stati abbastanza banali e pratici. Si tratta di pezzi che facevano parte della tournée, e c’era già stata una selezione a monte, sulla base dei criteri di cui ti dicevo. Ovviamente ci sono pezzi a cui teniamo moltissimo noi e pezzi particolarmente amati dal pubblico che non hanno mai avuto una buona resa dal vivo. Invece questi undici, a parte qualche sbavatura che per qualche fanatico arricchisce pure il disco, hanno una buona resa sonora e abbracciano tutta la carriera dei Massimo Volume, da Ororo a Esercito di Santi ovvero l’inedito, abbiamo preso da tutti i nostri dischi, quindi è abbastanza completo nella sua brevità.
Tra gli undici brani, ce n’è uno a cui tieni particolarmente e a cui non avresti mai rinuciato?
Difficile dirlo. Ti direi… forse Esercito di santi perché mi sembra anche il brano che giustifica il disco nonostante non sia recentissimo. E’ un brano nuovo per molti perché non l’avevano mai ascoltato. Ti direi… Il primo dio, La città morta, i classici dei Massimo Volume.
Parliamo di un brano che mi ha fatto molto piacere trovare in questo disco, Qualcosa sulla vita (Da qui, 1995). Posso chiederti di raccontarmi questa canzone, anche in relazione a Bologna nov. 2008?
Anche questo è un brano che appartiene ai nostri classici. La canzone in origine è nata per dei reading che portavamo in giro io ed Egle, il testo era più lungo, infatti c’è una versione più completa del testo in Gara di resistenza (ed. Gamberetti, 1997). Si racconta di un periodo in cui sgomberavo cantine, c’è una lettura filologicamente esatta: è la descrizione di uno sgombero particolare, ma nemmeno poi tanto perché un lavoro del genere ha già di per sé qualcosa di evocativo e funziona in una canzone.
Esercito di santi è l’inedito. Fa parte delle sessioni di Club Privé ed è stato eseguito live poche volte prima dello scioglimento. Come mai rimase fuori al tempo e come mai è stato ripreso oggi?
E’ un brano molto vicino al sound di Da qui, e sembrava poco in linea con il cambiamento che alimentava Club Privé. L’abbiamo recuperato perché è un bel brano, ci è capitato di riascoltarlo prima della tournée ed è maturata l’idea comune di riprenderlo in mano. Mi piace molto il testo, ha quel vago sapore di west coast nelle chitarre… è bello, anche se non divertentissimo da eseguire dal vivo, e funziona di più ascoltarlo.
Mi racconti, al di là dell’importanza di Bologna, della scelta di registrare il disco in un’unica session?
Non so se ci siamo fatti prendere da qualche scrupolo di onestà artistica, semplicemente ci sembrava più sensato riportare un unico concerto così come era venuto piuttosto che andare a recuperare i pezzi venuti meglio tra le varie date. Per noi aveva una potenza maggiore il fatto che il disco fosse il riflesso di un evento unico. Abbiamo recuperato anche altre registrazioni dei brani venuti meglio in altre date, però alla fine quella dell’unica session ci è sembrata la scelta giusta.
A proposito della dimensione live e del rapporto con il pubblico, ero al Farc!Sentire a luglio. Palpabile l’attenzione, il silenzio dei presenti durante l’esibizione. Invece è abbastanza palese, di solito, la maleducazione ai concerti. Dal palco Massimo Volume che percezione hanno del pubblico?
Abbiamo un pubblico affettuoso, però è anche vero che ci abbiamo messo molto tempo per raggiungere quel tipo di attenzione. Chi viene ad un concerto dei Massimo Volume sa cosa si aspetta ed ha quello che tu descrivi come un atteggiamento educato, ma quando abbiamo cominciato (incluso il periodo di Lungo i bordi) non era esattamente così, c’era un fascia di pubblico che ascoltava e c’era anche un’altra fascia che era distratta e non interessata. Conosco quel modo negativo di comportarsi del pubblico perché non è sempre stato rose e fiori per noi, però sono contento che alla fine siamo riusciti a convincere a farci ascoltare!
Toccare il proprio passato, suonarlo oggi cosa vuol dire per le prospettive future?
Ti direi che è difficile capire quello che si è fatto, è difficile capire quale sia il nostro bagaglio artistico. Stiamo lavorando ad un disco nuovo che vuole essere attuale nei testi e nella musica, non vogliamo rimanere ancorati agli anni ’90, che abbiamo vissuto con piacere ma non vogliamo fare della mitologia intorno a quel periodo, e nello stesso tempo non vogliamo privarci della nostra poetica e del nostro stile che abbiamo costruito con fatica e con lentezza, commettendo anche degli errori. Quello nuovo sarà un disco con le caratteristiche dei Massimo Volume ma senza ripeterci. Tornando a Bologna nov. 2008, devo dirti che io non sono mai stato un amante dei dischi live ma sentivo importante, dopo più di quindici anni di carriera e in un momento così particolare come questo perché ci stiamo rimettendo in gioco, pubblicare un disco che fosse uno sguardo sul nostro passato…
Può essere anche un’occasione per le persone più giovani che non vi conoscono…
Certo. Assolutamente.
Il rock dei Massimo Volume è stato un punto di riferimento per il panorama indipendente italiano. Continua ad esserlo perché fuori dagli schemi, nei suoni e nelle parole. Trovi cambiate le “regole” del sistema indie rispetto ai vostri esordi?
Sì, sono cambiate. E’ un sistema in crisi. A metà degli anni ’90 anche le majors sentivano nel movimento alternativo un antagonista perché aveva una forza. Adesso il mondo mainstream delle grandi case discografiche è agonizzante, esistono delle realtà valide nel mondo indie, ma c’è meno sostanza economica, e a livello creativo mi sembra un po’ indebolito anche se ci sono dei progetti che mi piacciono molto. La scena dei ’90 era più coraggiosa… certo, queste sono solo opinioni e lasciano il tempo che trovano. Tra i giovani mi piacciono Le luci della centrale elettrica, Alessandro Grazian. Ho molta ammirazione per Benvegnù, Parente, Afterhours… ma fanno parte della mia generazione!
La mia percezione della tua Parola. Sembra avere corpo, calata dentro una stanza, dentro un volto, dentro le cose. Però poi è altro. Suggestione. Memoria. Cos’è la parola per te?
Le tue riflessioni sono da ascoltatrice, giustissime. Nel momento in cui pubblichi qualcosa, una canzone, un testo, ognuno se ne appropria e lo interpreta. E’ difficile raccontare del lavoro sulla parola perché molto di quello che faccio è quasi istintivo, c’è sempre un alone di mistero nel momento della composizione. Tutto ciò che riguarda il ritmo, la scelta delle parole è un processo che si svolge in maniera quasi inconscia. Nel momento in cui la parola non è cantata ma “parlata” c’è una prospettiva falsata nell’ascolto, la presenza della voce è a tratti ingombrante, troppo vicina, fastidiosa; quindi bisogna stare molto attenti nelle scelte lessicali per cercare di ricreare un minimo di prospettiva ed evitare la ridondanza, la retorica, e la teatralità che non mi intessa assolutamente. Il lavoro più grasso si innesca nel momento in cui musica e parole si incontrano, ma a monte proprio la scelta ponderata delle parole… ti direi che si tratta di una scelta di medietà, di parole comuni, di frasi che riescono a diventare evocative.
Penso al concetto che è dietro il cut up, anche se la metodologia è completamente diversa. Penso alla forza misteriosa delle parole, estrapolate dai contesti, nude e semplici, riescono ad avere sensi indipendenti… evocativi…
Certo. E’ esattamente così. Confrontandomi con gli ascoltatori dei Massimo Volume, mi sono reso conto che certi versi sono diventati dei tormentoni. E sono versi che, se ci pensi, sono semplicissimi. Cavalcare la forza della parola è pericoloso perchè è come un terreno sdrucciolevole, fragile: cerco di tenermene alla larga.
Matilde e i suoi tre padri è il tuo ultimo romanzo. Vivi in modo differente la parola nel ruolo di scrittore e in quello di musicista?
Sì. Nella mia scrittura viene comunque mantenuto un ritmo, anche se inevitabilmente diverso da quello dei testi dei dischi. C’è chi rimane deluso da me come scrittore o chi invece, dopo avermi conosciuto come scrittore, fa fatica a ritrovarsi in quello che scrivo per la musica. In parte lo capisco. Però sono linguaggi diversi. Per la musica puoi scrivere testi in cui ha più spazio il non detto e il mistero rispetto ad un testo letterario. Come lettore preferisco le storie piane con una bella scrittura, non amo molto lo sperimentalismo. Quindi qualcuno non si ritrova molto, trova i miei due ruoli abbastanza distanti… e forse è vero. Tra l’altro molti sono rimasti molto delusi dal mio ultimo libro perché non hanno ritrovato storie di vita marginale, non hanno rinvenuto quella potenza che c’è in altri miei testi, ma è anche vero che quella storia andava narrata con quello stile.
Parlavi di storie piane. Nel ruolo di scrittore c’è un libro che avresti voluto scrivere?
Ti direi Il mondo secondo Garp di Irving. Sono molto legato ai romanzi di Dickens piuttosto che a quelli di Dostojevski, sia per stile di scrittura che per i cambi di registro.
Nel ruolo di musicista c’è un disco che avresti voluto realizzare?
Astral Weeks di Van Morrison e forse Blood on the tracks di Bob Dylan.
Un solo commento
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