Ben quindici anni fa, nel 1994, moriva Kurt Cobain e si scioglieva per sempre la band che ha consacrato il grunge al grande pubblico. Con i Nirvana sembrava essere morto anche il movimento più influente di tutti gli anni ’90. In realtà il movimento grunge, affievolito negli anni seguenti il suo massimo splendore, sicuramente non soltanto non è morto ma anzi esisteva prima ancora che i Nirvana pensassero soltanto di iniziare a fare musica. E dietro la parola grunge si mostrano i volti di Mark Arm e Steve Turner, che nell’85, a Seattle, insieme a Jeff Ament e Stone Gossard (poi Mother Love Bone, Temple of the Dog e Pearl Jam) con i Green River e il loro grandissimo Come On Truth fissano i requisiti del movimento più importante e fortunato di tutti gli anni ’90. E sono loro, sempre Mark Arm e Steve Turner, che assieme ai loro Mudhoney scriveranno le pagine essenziali del movimento grunge, influenzando anche band più “pubblicamente” significative come i Nirvana. E se tutti gli altri sono morti per strada per i motivi più diversi, i Mudhoney non si sono fermati mai e all’insegna del loro credo nel rock hanno proseguito sulla direttrice tracciata nell’89 con l’album d’esordio omonimo fino ad oggi, passando per la bellezza di nove lavori discografici, tutti col supporto della leggendaria Sub Pop Records.
E fino a qualche anno fa, prima della reunion dei Pearl Jam, probabilmente i Mudhoney sembravano gli unici superstiti, anche un po’ attempati, di un movimento che ha letteralmente sconvolto i canoni del rock, anche se ci si chiedeva che senso avesse continuare a predicarlo oggi, a più di vent’anni di distanza dalla sua nascita. La risposta, se mai ce ne fosse stato bisogno, si palesa con tutta la sua forza stasera, sul palco dell’Alpheus. Sta tutta nello spirito incredibilmente rock di Mark Arm che a 47 anni suonati conserva una forma ed un’energia incredibili, strepitose, sprizza rock da tutti i pori, si agita e si muove come sempre e come pochi ormai, si lascia pervadere dalla musica e coinvolge come fosse adrenalina pura. Quella riposta sta tutta nella potenza rozza e sporca che travolge a partire dalle corde della chitarra di Steve Turner coi suoi riff saturi di Bigmuff, nella batteria incalzante e indiavolata di Dan Peters così come nel basso furioso della new entry Guy Maddison. Una risposta che polverizza ogni dubbio quando si può vedere una sfilza di infaticabili flanelle di tutti i generi e di tutte le età scatenarsi a più non posso nelle prime file sotto un palco. Già, perché se ancora non si fosse capito, mentre la Sub Pop decide di ristampare in vinile il primo album omonimo e il mitico Superfuzz Bigmuff, i Mudhoney sono di nuovo in tour in giro per il mondo e stasera tocca proprio a Roma. L’Alpheus non è pieno come l’importanza di quel nome lascerebbe immaginare ma nessuno ci fa caso. Partono allora i primi brani dell’ultimo The Lucky Ones (2008) in sequenza che scaldano non poco l’atmosfera e fanno notare quanto, man mano che siano andati avanti con la loro carriera, i ragazzi di Seattle si siano avvicinati molto più a certi meccanismi del rock classico. Escluse le prime file, il pubblico fatica ancora a scatenarsi nonostante la tempra dei pezzi e un Mark Arm che dà il meglio di sé quando si dedica soltanto al microfono ed alle convulse mosse che ricordano il miglior Iggy Pop coi suoi Stooges. E non appena Mark imbraccia la chitarra i classici arrivano e tutto l’Alpheus va letteralmente in delirio. Suck You Dry ti arriva addosso come un macigno assieme alla rabbia urlata dell’impressionante Touch Me I’m Sick. Il locale romano diventa una bolgia: il pogo dilaga, bocche che cantano all’unisono urlando, capelli che fendono l’aria indiavolati, persone che volano tra la folla. E il piccolo momento di gloria arriva anche per i fedelissimi fans in flanella che piombano a turno sul palco per poi rituffarsi tra la gente offrendo uno spettacolo che andrà avanti fino a fine concerto ma che risulterà così scontato che i Mudhoney nemmeno ci fanno caso e la security capisce che non c’è bisogno di intervenire. Le emozioni arrivano a valanga ripercorrendo tutta la discografia tra Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More, Hate the Police, Inside Job, Good Enough, Oblivion, You Got It. Lo show si avvia verso la fine e i Mudhoney sono ancora lì sul palco a impartire lezioni del rock più puro, infaticabili, mentre la folla si arrende pian piano. La musica finisce, gli applausi, poi gli immancabili bis. Si parte dall’ultimo The Lucky Ones con The Open Door per affidare la conclusione al passato con In ‘N Out Of Grace. Stavolta siamo davvero alla fine, tra facce sconvolte nell’aspetto esteriore ma con l’animo rinfrancato, gente esausta nel fisico per un’ indigestione di sano rock che non potrà fare altro che riscaldare il cuore. Del resto tenere ritmi così forsennati per oltre un’ora e mezza non è cosa da tutti i giorni per i comuni mortali. Evidentemente i Mudhoney non lo sono e ancora non hanno intenzione di smettere di dimostrarlo.