Ian Curtis e David Bowie, due anime uniche della storia del rock si sono materializzate in una sola figura: Curtis Jones. Il rocker partenopeo con la band The gossip terrorists ha dato vita ad un progetto tutto new wave revival da brividi. Dai Joy Division agli Editors, dai the Doors ai Custeau, sono molte le influenze rintracciabili nelle undici tracce del loro debut album The assasination of Alabama Whitman (altra citazione storica da uno dei film della trilogia pulp di Q. Tarantino). Sarebbe facile archiviarli come super cover band, invece questi ragazzi hanno classe e inventiva da vendere. Se fossero originari della terra di Albione ci sarebbero giunti come le nuove promesse del rock. LostHighways approfondisce questo interessante progetto senza pregiudizi e mirando sempre dritto alla qualità delle proposta.
Curtis Jones trae origine da Ian Curtis (leader dei Joy Division) e David Robert Jones (alias David Bowie). In che misura queste due immense personalità artistiche hanno influenzato il vostro progetto?
Mi piace ritenermi un grande ascoltatore di musica, prima ancora che un musicista. E’ chiaro che negli anni ho assorbito moltissime influenze che ho poi riversato nel mio modo di scrivere. I Joy Division e David Bowie sono sicuramente tra gli artisti che più mi hanno segnato, per cui la loro influenza può essere piuttosto evidente, ma non sono sicuramente i miei unici riferimenti. In generale trovo che non si possa prescindere dalle grandi lezioni della storia del rock, per cui il mio stile è, forse, un omaggio a tutta la buona musica del passato.
Nel titolo dell’album di debutto c’è un chiaro riferimento al film Una vita al massimo che appartiene alla trilogia pulp di Q. Tarantino. Perché questo riferimento?
Perché trovo che quel particolare modo di raccontare storie, violento ma ironico, un po’ paradossale, quasi fumettistico, sia molto vicino al mio. Mi è sembrato di riconoscere nel risultato del nostro lavoro una cifra stilistica simile a quella del Tarantino “pulp”, per cui ho citato uno dei suoi personaggi (oltretutto, uno dei meno conosciuti – Alabama Whitman) nel titolo dell’album.
La vostra attitudine è tipicamente british eppure siete di Napoli. Come si può coltivare questo tipo di approccio alla musica in una città che non ha per nulla i colori e le atmosfere britanniche?
Basta avere la presunzione di non sentirsi obbligati a rimanere ingabbiati nello stereotipo del napoletano “pizza, mandolino e tarantella”. Personalmente, non ho mai sentito una forte appartenenza alla mia terra, in termini di mentalità, di retaggio e di tradizioni. Musicalmente sono cresciuto con il rock inglese e americano; fin da quando ho iniziato a fare musica è stato molto naturale indirizzarmi verso qualcosa che fosse di respiro internazionale. E poi il rock ora più che mai è un linguaggio universale, per cui non vedo perché dobbiamo precludercene l’utilizzo o la comprensione.
Ascoltando il vostro disco si percepiscono molte influenze ma mai marcatamente il riferimento esplicito. Non vi spaventa che qualche orecchio poco attento vi etichetti facilmente “copia di… ” mandando all’aria l’immensa professionalità del vostro lavoro?
Non ci spaventa perché è un rischio calcolato. Credo che si possano considerare tre tipi di ascoltatori della nostra musica: quelli che non sono propriamente esperti del settore, i quali magari possono semplicemente apprezzare l’orecchiabilità di una canzone senza farsi troppe domande; quelli che possiedono la giusta chiave di lettura dell’intero progetto, i quali possono invece apprezzare anche sfumature come le citazioni, gli spunti lirici, i riferimenti anche cinematografici e letterari, dando ad ognuno di questi elementi il giusto peso e cogliendo magari anche l’intenzione che c’è dietro; ed infine quelli che si fermano ad una prima, superficiale analisi di questa o quella canzone. In questo caso è davvero molto semplice individuare quei due o tre nomi dei quali potremmo essere “la copia”. D’altra parte, i riferimenti sono talmente evidenti… Li abbiamo già dati noi, apposta. Basta capire le regole del gioco.
Spiegaci i titoli e le tematiche approntate nei brani Vincent Van Gogh, Space Invaders e Tropic of cancer?
Vincent Van Gogh parla di innocenza perduta, di un certo periodo della vita in cui consapevolmente si prova a creare una nuova identità “adulta” di se stessi, in modo forzato, “dipingendo” i propri giorni con pennellate violente e tinte forti.
Space invaders è un’analisi molto ironica sulla figura della rockstar vista dalla gente comune. Il protagonista gioca sul fatto di essere considerato quasi un alieno a causa del preconcetto “sex, drugs & rock’n’roll” che inevitabilmente gli crea una pessima reputazione per il solo fatto di essere un musicista.
Tropic of Cancer racconta una storia di amore e malavita ispirata in parte dal film “Gilda” con Rita Hayworth. Volevo dare però al mio pezzo una sfumatura meno leggera, più drammatica e “sporca”; perciò ho optato per un titolo che è un riferimento esplicito al romanzo di Miller, perché ho trovato che rendesse bene l’idea dell’atmosfera che avevo in mente.
Before the wave arrives e Youth of today li trovo tra i brani più belli del disco, possiamo approfondire la loro nascita?
Sono due brani nati in un periodo in cui stavo mettendo a punto lo stile musicale del progetto. Credo che siano tra quelli in cui le influenze new wave sono più marcate, ma anche qui mi sono divertito a tentare accostamenti inusuali, come ad esempio le sonorità anni ’60 di organo e batteria con il basso marcatamente “New Order” nel ritornello di Before the wave arrives, oppure l’atmosfera rarefatta, quasi “jazzy”, della prima parte di Youth of today con il rock-wave “alla Television” del refrain…
Liricamente poi, riflettono perfettamente il mood generale dell’album, essendo una storia d’amore finita male la prima e una storia di droga, notti brave e malavita la seconda.
Presto vi vedremo live in giro in Italia?
Stiamo mettendo a punto il live set, che porteremo in giro a partire da gennaio; non abbiamo ancora fissato date, ma chi vuole potrà trovare aggiornamenti in tempo reale sul nostro MySpace e sul nostro sito ufficiale, che inaugureremo a breve. Cominceremo sicuramente da Napoli ma abbiamo intenzione di portare lo spettacolo in giro per l’Italia, e perché no… magari fare anche qualche puntatina all’estero.
La camicia e la cravatta sarà la vostra attitudine rock da palco?
Certamente! Fa parte del nostro stile, come la musica e tutto il resto; e come tutto il resto, ci rende riconoscibili.
Cosa pensate dell’autoproduzione di un disco?
E’ necessaria per mantenere comunque un certo controllo sull’identità stilistica di un progetto; noi abbiamo la fortuna di avere uno studio tutto nostro dove possiamo dare forma alle nostre idee. Ancora prima di trovare un accordo con Discipline, la nostra etichetta, avevamo già iniziato a registrare l’album perché volevamo che in ogni caso suonasse così come lo avevamo immaginato. Uno dei motivi per cui crediamo che sia un lavoro ben riuscito è proprio il fatto che ci abbiamo lavorato noi della band al 100%. Naturalmente è un processo faticoso e richiede notevoli sforzi oltre che capacità, ma è sicuramente il modo migliore per concretizzare un progetto che è già concepito con una forte identità di stile.
Musica indipendente, musica mainstream: c’è una differenza fra questi mondi?
Come dicevo, credo sia importante mantenere sempre un certo controllo sulla realizzazione della propria musica, quando alla base c’è un concetto ben definito; la musica indipendente lascia, credo, più spazio in questo senso, è una dimensione in cui forse si è più liberi di sperimentare senza dover sottostare a troppe regole; dal punto di vista della fruizione, invece accade sempre più spesso che i due mondi si intersechino: penso ad alcune band che nascono indie ma riescono a fare breccia nel grande pubblico, oppure a progetti evidentemente mainstream che riescono a conquistare anche il pubblico più raffinato ed esigente.
Cinque album imprescindibili?
– Diamond Dogs (David Bowie) – perché rappresenta la capacità, da parte di un artista, di imporre la forza del proprio personaggio all’interno di un percorso narrativo che è già forte in sé; anche “Ziggy Stardust” funziona alla stessa maniera, ma trovo che qui Bowie abbia ancora più “controllo” dell’interazione tra realtà dello spunto creativo e finzione del personaggio.
– Unknown Pleasures (Joy Division) – perché la loro invenzione di smontare e rimontare la musica secondo canoni concettuali totalmente nuovi rappresenta uno dei grandi punti di rottura della storia del rock; e poi la voce di Curtis è agghiacciante come mai si era sentito prima.
– The Doors (The Doors) – perché con questo album hanno creato un sound tra i più riconoscibili, efficaci ed “immortali” non solo degli anni ’60 ma del rock in generale; un suono marcatamente vintage eppure assolutamente attuale.
– A Tribute To Jack Johnson (Miles Davis) – per la grande capacità di bandleader di Davis; è straordinario come si avverta la sua presenza anche quando lascia suonare la band (e che band!), tirandosi fuori dal suono in senso stretto ma rimanendo l’occulto direttore d’orchestra di quel flusso musicale.
– Revolver (The Beatles) – perché è l’esempio più eclatante di come, alla fine, ciò che conta di più per la riuscita di un album è la capacità di scrivere grandi canzoni, e qui ce n’è da vendere. Personalmente preferisco Lennon a McCartney, ma è tutto il disco ad essere straordinario: se è considerato uno dei dischi più importanti di tutti i tempi, un motivo c’è.
Un solo commento
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