Il Teatro degli Orrori, secondo album, una sfida enorme e l’affluenza nelle ultime date dei live pare declamare la loro vittoria. La band,nata dall’esperienza dei One Dimensional Man trova con Dell’impero delle tenebre la formula per conquistare un pubblico vasto ed inaspettato con un apparente semplicissimo ingrediente: comunicare. L’uso della lingua italiana consente alla poesia di Capovilla di giungere a chiunque, aprendosi la strada da una musica rock potente come poche. Raccontando la vita, la band va a colmare quei vuoti culturali che la società attuale spesso impone. Il nuovo album A sangue freddo si è presentato con una nuova forma che preserva l’essenza.
In occasione del concerto all’Estragon di Bologna scambiamo una preziosa chiacchierata con Pier Paolo Capovilla. (In collaborazione con Giulia Gasparato, si ringraziano Roberto Busetto e Lunatik; foto di Emanuele Gessi; Due e E’ colpa mia sono in streaming autorizzato)
A sangue freddo, rispetto al precedente album, ha intrapreso delle strade più pulite. Il nuovo disco è ricco, ed il suono più morbido. Allo stesso tempo trovo però che i nuovi brani non siano meno dolorosi, anzi, penso che riescano a colpire nel profondo. Vi ritrovate in questa descrizione?
Tutto esatto. Abbiamo speso trentatre giorni in riprese, mixaggi, registrazioni e partecipazioni esterne alle Officine Meccaniche di Milano e poi tre giorni per la masterizzazione proprio perché desideravamo fortemente un disco più pulito del precedente. Un disco più classicamente rock, più intellegibile, più facile se vogliamo, ma naturalmente l’abbiamo fatto con grande coerenza, senza abbandonare il nostro DNA di rockettari veri. Abbiamo ricercato questo. Se poi con “doloroso” ti riferisci ai testi, ti posso dire che effettivamente il lavoro sulle canzoni è stato fatto con grande pazienza.
In una tua videointervista presente in rete, risalente all’anno scorso, ti ho sentito dire che eri terrorizzato dal pensiero di dover scrivere i testi dei nuovi brani, ne sentivi la responsabilità. Credi di avere fatto un lavoro all’altezza delle tue stesse aspettative?
Ho passato sei mesi di notti insonni per scrivere questa manciata di canzoni. Rispetto al risultato, il problema è quale sia l’altezza, se non addirittura l’altitudine, di queste aspettative. Ogni canzone è per me una prova capitale. Non si scherza. Può sembrare che non mi prenda troppo sul serio a volte, ed è meglio così perché un po’ di ironia è sale nella pietanza della vita, ma quando scrivo mi prendo molto sul serio, se così non fosse la partita non varrebbe la pena di essere giocata.
I messaggi dei vostri brani sono apertamente politici, ma mai faziosi. Sbaglio o per voi è più importante istigare alla riflessione piuttosto che professare verità e fede?
Spero ci sia faziosità nei nostri brani, perché sono effettivamente di parte, ma non c’è militanza perché non ci serve. Ben vengano i gruppi militanti come Modena City Ramblers o 99 Posse, ma non è il mio stile: io ricerco la poesia, per fare attraverso essa ancor più politica di quanto non faccia la militanza.
In A sangue freddo non parlo di Shell o Agip, sarebbe stupido: protagonista è la figura di Saro Wiwa. Praticamente questa canzone l’ha scritta lui, gli ho “rubato” contenuti: tutto proviene da una sua poesia davvero dolorosa, La vera prigione, scritta durante la prigionia prima di essere impiccato. La canzone parla della disperazione, perché il risultato della politica economica del nostro paese, delle nostre multinazionali nel delta del Niger è proprio la disperazione per milioni di persone. E poi parlo della plateale, pornografica, ingiustizia che ha subito Saro Wiwa, impiccato a tradimento. Sai, il mondo non si aspettava che venisse impiccato, è stato deciso tutto molto in fretta: lui fu condannato un paio d’anni prima e tutti pensavano che non l’avrebbero mai impiccato, invece è stato ucciso il giorno di un’importante partita di coppa africana, mentre la Nigeria vinceva e la popolazione non ne venne nemmeno informata. Era un uomo importante e amatissimo nel suo paese, la morte ha lasciato tutti sgomenti.
Penso a ciò che mi stai dicendo, e mi viene in mente Roberto Saviano in televisione, prima serata, che tra le tante storie di letteratura, narra come voi, la vita di Ken Saro Wiwa. Spengo la musica ed accendendo la televisione, il percorso continua, la mente elabora, riflette… mi è parso quasi un miracolo.
Una splendida coincidenza questa di Saviano, direi che è proprio il momento di Wiwa e ne sono felice. Noi non sapevamo nulla, tant’è vero che quando lo abbiamo saputo il nostro ufficio stampa ha provato a contattare il programma ma naturalmente era già stato tutto registrato prima.
Credete che la “parola” stia piano piano riacquistando il suo valore?
Noi scriviamo canzoni impegnate, non capisco perché alcuni artisti si vergognino di usare questa parola. Noi scriviamo canzoni impegnate ed impegnative, per chi le scrive come per chi le ascolta, vogliamo far funzionare il cervello e svegliare le coscienze. Parliamo al cuore delle persone, alle loro vite e delle loro vite. Questo disco è un’istantanea della società adesso, oggi, del suo edonismo, egoismo, è il racconto di quanto siamo diventati bugiardi. Le cose bisogna dirle, solo così cambiano, tacendo nulla accadrà.
Poi capitano vicende come quella de Il Gazzettino di Treviso che ha dato spazio ad una polemica riguardo il vostro Padre Nostro. Avevate previsto si potesse innescare una così ridicola caccia alle streghe?
Una stupida polemica, un esempio perfetto di cattivo giornalismo. C’è stato anche il diritto di replica, richiesto direttamente da noi, ma la polemica è stata pretestuosa perché nata qualche giorno prima del nostro concerto in un club di Treviso, polemica tutta ad opera del giornale, con titoli che gridavano allo scandalo di un “Padre Nostro in versione rock”. Dietro la polemica però c’era solo il quotidiano e, che io sappia, per polemizzare è necessario essere almeno in due. Il giorno successivo, poi, sono apparse dichiarazioni di politici della Lega Nord e dell’UdC ad alimentare il tutto. Per quanto mi riguarda però di queste persone non mi importa nulla. La polemica ci ha sorpresi e francamente amareggiati, ma io sono convinto di una cosa, di fronte a questo personale politico che abbiamo in Italia odierno (la Lega Nord è il partito più brutto ed ignorante della storia dell’Italia repubblicana, questo va detto e nessuno può querelarmi se dico la mia opinione) è bello reagire con compostezza ed eleganza perché non vogliamo assolutamente essere scambiati per gente come loro, noi siamo alteri di fronte a queste persone.
A peggiorare la situazione, poco tempo dopo, in un altro locale del Veneto, è accaduto un fatto assurdo e gravissimo nella serata dei Bloody Beetroots. Nel comunicato di autosospensione dell’attività del locale si parla di “Un gesto che in un attimo ha zittito la Musica che ci piace fare e ascoltare, la Cultura che dovrebbe unire le persone… non ferirle“. Alcuni hanno colto l’occasione per sparare nuovamente a zero sui giovani, la musica, i circoli ecc ecc… ogni occasione è buona.
In questo articolo si racconta l’episodio dell’inutile accoltellamento di una ragazza da parte di un ragazzo ventenne strafatto che in macchina portava anche altri oggetti pericolosi, perché diceva di aver paura degli immigrati e quindi si armava perché “non si sa mai”. Io non credo che questa gente appartenga alla nostra cultura. Noi come Teatro degli Orrori compariamo tre volte nell’articolo e noi non eravamo lì! Non c’entravamo nulla, è di nuovo una polemica pretestuosa. Ho scritto una mail – mi è stato risposto e chiesto scusa – e ho protestato perché non si può agire così: è cattivo giornalismo.
Anche in occasione del MEI c’è stata della tensione che vi stava portando ad annullare un concerto in programma. Il tutto poi è rientrato, permettendo la realizzazione di un’esibizione breve ma di una intensità unica.
Siamo stati male informati, sì, però le informazioni errate erano su internet, bisogna fare attenzione e se ci sono dei refusi da eliminare, bisogna eliminarli. Noi avevamo saputo il giorno prima della presenza di tale Renzo Bossi (figlio di Umberto, ndr) per parlare dei musicisti indipendenti padani e ci siamo detti che qualcuno al MEI era di troppo. Perciò abbiamo subito comunicato al MEI che non avremmo tenuto lo spettacolo e in risposta ci sono state date subito informazioni più circostanziate, così abbiamo capito che c’era un errore e quindi il nostro spettacolo si è svolto regolarmente ed è stato anche molto bello.
Si ripeterà?
Noi vorremmo ripetere lo spettacolo, anche in modo più articolato. E’ stata un’esperienza molto emozionante anche per noi: i fotografi non osavano scattare, c’era silenzio, era tutto molto bello.
Il live di questa sera, sarà più “normale”, se così si può dire.
… se così si può dire… (ride, ndr)
L’esibizione risentirà dell’evoluzione musicale evidente nel disco, o suonerà più cruda in stile Dell’impero delle tenebre?
Ci stiamo spendendo molto in queste date per trovare qualche compromesso. La violenza elettrica che usiamo dal vivo è nel nostro essere, però abbiamo capito che le persone vengono anche per ascoltare le canzoni, le parole. Abbiamo un buon pubblico transgenerazionale, cosa che ci dà molta soddisfazione, giovanissimi e meno giovani, fino a quarantenni e cinquantenni e ho la meravigliosa sensazione che buona parte di loro siano innamorati delle canzoni, segno che evidentemente abbiamo toccato la vita delle persone. Quindi dobbiamo trovare un compromesso, abbassarci e trovare un equilibrio che renda più intellegibili i nostri brani anche dal vivo, come abbiamo fatto in studio. Non è facile, e considera che i club italiani sono quasi tutti inadeguati alla musica rock, figuriamoci come la suoniamo noi! E’ difficile, c’è molto da lavorare.
Questo nuovo suono è frutto di un progetto ben chiaro sin da tempo, o si tratta di un processo apparso ai vostri occhi strada facendo?
Molte cose erano chiare sin dall’inizio soprattutto nella testa di Giulio, che in questo disco non è solo bassista ma anche produttore. Lui ha pensato riprese, mixaggi, arrangiamenti e collaborazioni esterne; aveva sin dall’inizio un’idea molto più organica di quella che aveva la band, me compreso. Direi che questo è il disco di Giulio, anche se molte cose ovviamente avvengono durante la scrittura, quando si è insieme, perchè siamo una band.
Direzioni Diverse è una splendida anomalia tra tutti i vostri brani: come vi siete imbattuti in queste sonorità così lontane da ciò che sono sempre stati Il Teatro degli Orrori e i One Dimensional Man?
Una piccola sfida, un bel mix su un pezzo che non ci stava riuscendo, non capivamo dove avessimo perso la magia di quel cantato. Poi a Giulio è venuta l’idea geniale di chiedere a Bob Rifo un intervento: lui ci ha impiegato letteralmente poche ore e ci ha dato questo bellissimo remixaggio, che io trovo crepuscolare. A me è venuta questa considerazione: è la prima volta che sento un pezzo techno dotato di poesia; insomma, è una piccola sfida che speriamo di aver vinto.
Per finire cito nuovamente un’altra tua dichiarazione precedente, dicevi: “La mia generazione ha fallito”, e questo discorso non è molto diverso da quello che Manuel Agnelli ha espresso al MEI pochi giorni fa relativamente alla scena musicale italiana. Nonostante tutto, con mezzi diversi, che talvolta si incontrano, cercate ancora di trovare strade per sollevare la situazione italiana, musicale e non: lo riconoscete come una sorta di dovere morale?
Oh, che bella domanda! Dunque, vedi, per me fare musica è un fatto politico, io penso che il rock si possa ascrivere alla macrocategoria della musica leggera, dell’ampio consumo. Si partecipa dunque all’immaginario collettivo, un immaginario che è politica, perciò io faccio politica tanto quanto la Pausini o Ramazzotti, ma il segno è opposto. Ci sono canzoni scritte e performate per fare soldi e compiacere il mercato, gli ascoltatori, per non farli pensare dando loro quattro-cinque minuti di tranquillità e lontananza dalle quotidiane angosce. Nel nostro caso invece no: noi vogliamo spaventare, addolorare i nostri ascoltatori, vogliamo che ascoltino le canzoni del Teatro Degli Orrori e aprano gli occhi sulla società, su ciò che è diventata. Far politica attraverso la poesia, questa è la mia ambizione. Io vengo al mondo per cambiarlo: questa prova, questo sforzo rende più degna la mia vita. Far musica, dunque fare politica, non è né un dovere né un diritto, per me è un piacere, mi diverto.
E c’è dell’ottimismo: tutta la disperazione che c’è nelle nostre canzoni nasconde un grido di emancipazione e riscatto, è sempre così, dietro ogni grido.