Poliedrica artista che può vantare molta esperienza nel mondo della musica elettronica, jazz e rock, Georgeanne Kalweit torna con un progetto tutto suo, o quasi. Accompagnata da Leziero Rescigno (LaCrus, Amor Fou) e Giovanni Calella (DjPanda), l’artista americana ha dato vita ad Around the edges (Irma Records), disco d’esordio del progetto Kalweit & The Spokes. L’incontro tra i tre non poteva essere più azzeccato, e la grande esperienza trasforma questo disco in un’opera completa. Obiettivo centrato al primo tentativo. Dolce o rabbiosa, la voce di Georgeanne è protagonista di un album che ricerca l’essenzialità, suonando diretto e personale. Per presentarci la sua ultima fatica, a nome di tutta la band, la cantante risponde alle nostre curiosità sulla genesi e sviluppo di un progetto che abbiamo molto apprezzato. (Ice man è in streaming autorizzato; si ringrazia Antonia Peressoni per la collaborazione)
Nessuno di voi tre è un esordiente, ma Kalweit and the Spokes è il nome di un nuovo progetto musicale che è stato battezzato da pochissimo con l’album Around the edges. Eravate più agitati all’inizio delle vostre carriere oppure oggi?
Si cresce e il punto di vista inevitabilmente cambia un po’ da progetto a progetto, ma direi che l’energia è sempre alta, e la curiosità nel fare ancora di più.
Siete un trio che ha differenti origini musicali. Qual è la peculiarità che è riuscita ad unirvi?
Il fatto che Leziero e Giovanni riescono benissimo ad evocare un sound familiare nelle composizioni, che si sposa con il mio, e che è capace di dare spunto ai miei testi e alle mie idee.
Quando vi siete conosciuti? Tutto era nato per gioco, o fin da subito avete desiderato creare musica insieme?
Ci siamo conosciuti un paio di anni fa mentre lavoravamo insieme ad un altro progetto che Leziero e Giovanni stavano producendo nel loro studio (Diabolicus). Ci siamo accorti che c’era una certa alchimia e cosi abbiamo iniziato a sperimentare insieme in maniera naturale, finché non abbiamo individuato la linea da seguire.
Around the edges è un album che cerca nell’essenza la bellezza. Questo obiettivo ha preso forma nel tempo oppure è stata una necessità per tutti fin dal principio?
Mi fa piacere questa osservazione: la ricerca della bellezza nell’essenza direi che è per di più una ricerca di qualità dovuta anche al fatto che consideriamo ciascun brano un micro-cosmo degno di attenzione e dettagli, sia nella parte compositiva, e quindi le relative scelte dei suoni, che nella maniera di raccontare le storie e le varie realtà.
Trovo quest’album molto viscerale, intimo. C’è molta tristezza, molta rabbia. I testi sono nati rivolgendo lo sguardo sul mondo o su se stessi?
Verso entrambi, visto che in questo momento storico ci siamo tutti dentro fino al collo e non si dovrebbe fare finta di nulla, anche se molti lo fanno. Così nasce la rabbia e l’immediatezza nel dover raccontare, protestare, e cercare attraverso l’arte di comunicare e far riflettere. In Split us in Two c’è tutta la mia frustrazione nata dalla “dinastia” dei Bush e sul come in otto anni Bush Jr sia riuscito a portare avanti il piano del padre e disfare molte cose buone del mio paese, lasciando in eredità un vero casino. In Guns are Back il testo parla di come le pistole siano tornate di “moda” e su quanto risulti facile “intrattenere” un ragazzo con questo semplice oggetto: un brano ironico ma stra-carico di tristezza per questo stato delle cose, soprattutto negli Stati Uniti.
La tua arte non si limita alla musica, ma anche alla pittura. Si tratta di due differenti mezzi che sovrapposti svelano la medesima personalità, oppure sono due mezzi complementari che seguono strade ed obiettivi ben differenti?
Direi che sono due parti di me che si alternano nell’atto di esprimermi. Ci sono cose che vengono meglio in una canzone ed altre in un’opera d’arte, il trucco sta nel poter ritagliare il tempo fra gli impegni per dedicarne a tutte e due in ugual misura e capire in quale sfera rovesciare le emozioni ed il perchè.
Il vostro background musicale è molto vasto e disparato nei generi. Immagino che per Around the edges avrete dovuto imporvi dei limiti; questi corrispondono ad alcuni artisti di riferimento?
I riferimenti saltano sempre fuori, ed è vero che siamo tutti influenzati da tanta musica diversa, ma ritengo che il mondo di Around the Edges sia proprio nostro. Spero di continuare a scoprirlo in tanti brani futuri.
Kalweit and the Spokes è un esperimento o una scelta?
Una scelta fortunata alla fine; non è sempre facile trovare artisti con cui si può sperimentare, ma quando scopri che c’è alchimia ed intesa, l’esperimento diventa scelta.
Kalweit and the Spokes pensano al loro futuro? E se ci pensano, il climax musicale di Around the edges è e sarà marchio di fabbrica che li distinguerà oppure è solo una realtà del presente?
L’intenzione di fare nuovi brani insieme c’è, e penso che saranno una “evoluzione” di quello che abbiamo creato finora; fare un disco simile al precedente non ha senso, preferisco sorprendere, poi dipenderà da ciò che ci succederà intorno e dall’ispirazione.
Ritornando al tema iniziale, parlando di esordi è possibile fare un parallelismo con le tue precedenti esperienze. Noti differenze di approccio nel tuo lavoro artistico?
Con questo progetto mi sento molto a casa. Con quelli precedenti ci passavo attraverso, solo come voce; questo progetto, invece, “è” la mia voce, veicolo dei miei pensieri, oltretutto nella mia lingua madre.
Da poco si è conclusa la kermesse sanremese dove sistematicamente è possibile osservare alcuni rari esemplari di cantanti che sembrano vivere esclusivamente di dischi e pochissime prove live. Per voi quanto è importante l’esperienza live sul palco? I vostri concerti saranno fedeli al disco o si noteranno delle differenze?
Il live è molto importante, lo è sempre stato per noi, ed è piuttosto fedele al disco. Il nostro è un live arricchito da immagini di film montati e proiettati su ciascun brano per dare vita all’immaginario del nostro disco anche da un punto di vista visivo oltre che musicale.
E’ partito il tour di presentazione del disco. Tra le varie difficoltà nell’incastrarlo tra gli impegni di voi tutti, avete puntato lo sguardo anche oltre confine?
Naturalmente la curiosità di suonare all’estero c’è. Un progetto tutto in inglese è un po’ penalizzato in Italia anche se, considerando quanta musica americana e inglese viene importata e quasi imposta al pubblico mainstream dalle radio network italiane, non si direbbe. Perciò la voglia di portare la nostra musica oltre i confini, nei paesi dove l’Inglese fa parte della vita quotidiana, mi attira. Sarei curiosa di capire se i testi hanno un riscontro fra persone che usano la mia lingua.