Un taccuino in pelle nera, pagine scritte in bella calligrafia con inchiostro di china blu, una scrittura fitta ed ordinatissima, qualche lettera su carta di riso nascosta fra i fogli perché non si perda, biglietti di viaggio, istantanee di albe e volti che ridono, segni lasciati dai bicchieri, briciole di tabacco, annotazioni, citazioni, appunti, silenzi schizzati a carboncino, segreti svelati con l’onestà che si riesce a dedicare solo ai propri pensieri, i più intimi, regalandoli alla confidenza del tempo custodito dai segni.
Memorie di un vagabondaggio attraverso sogni e luci, constatazioni e voci; cronaca di un amore grandissimo e viscerale, notturno e ambizioso, un amore che anche nel suo epilogo misconosce la mediocrità, rinnega la retorica dell’addio, sceglie l’eccellenza.
Questa sera è un’occasione, il pretesto per ri-percorrere, dentro alle canzoni, dentro alle parole, un pochino del viaggio chiamato La Crus, per ri-ascoltare, riletti dalla voci narranti che li hanno custoditi e restituiti, alcuni brani di questo feuilleton, romanzo di una passione fatta di slanci e intuizioni, di genio e tenerezza, di realtà e ossessioni, di un inizio e di una fine.
Ospiti di Rock Files Live per Lifegate radio, i La Crus portano sul palco tutta la loro storia e lo fanno con la franchezza dell’ingegno, senza gratuite malinconie, quasi con leggerezza, la leggerezza dell’istinto che non conosce rimpianto. L’orchestra non c’è ma la si può tranquillamente immaginare, alle spalle dell’istrionico corpo di una voce sempre più appassionata, perfettamente intonata, che confessa ballate ricreando la suggestione delle quinte, dei velluti, degli aloni di fumo. Il rumore del vinile, appena intuito, cita certi attimi melodici lasciando che la chitarra sfoghi grazia e talento, che la tromba riporti a terra la visione prima che si faccia realtà. C’è complicità che ti raggiunge ed è un regalo inatteso che, puntuale, spinge all’emozione. Mauro Ermanno “Joe” Giovanardi, Cesare Malfatti e Alessandro Cremonesi parlano di quindici anni di un legame artistico che non ha risparmiato graffi e ferite; lo fanno con il sorriso del senno di poi, con rispetto, con l’ironia concessa alle cose ben riuscite. Paolo Milanesi sorride e dentro al suo espressivo silenzio ricama una nota di dolce rammarico.
Dentro me (Dentro me, 1997) stringe al petto, indaga le intuizioni, le ferma. Stringimi ancora (Dietro la curva del cuore, 1999) è pace, è il solco di quiete, l’allontanarsi dei palliativi, la rivincita dell’essenza. Puntuale la confessione di Soltanto amore (Dietro al curva del cuore): il desiderio che è bisogno, che non vuole essere dolore, che chiede alla memoria il senso e poi lo trova nell’attimo. L’occhio del cuore indaga i giorni, uno ad uno, e pre-sentendone l’amarezza, conoscendola bene, si affida alla menzogna perché salvi, fermi la pioggia, conduca un lieto fine, comunque sia.(Mentimi, Io non credevo che questa sera, 2008); si inchina all’aria del mattino, fresca, pulita, perché trattenga il sogno, chè soltanto il sogno ti dà infinite possibilità (Infinite possibilità, Infinite Possibilità, 2005). Ed è ancora e sempre la poesia, estro di parole e di musica, che esplode brividi con suggestiva grazia: Come ogni volta (Dentro me) è un testamento d’amore struggente e limpido; l’Autobiografia di uno spettatore (Io non credevo che questa sera) è un memoriale discreto e ammiccante dell’artista, uomo-filosofo poco avvezzo alle risposte, incline al dubbio nell’unica certezza di cantore che non sa far altro che guardare gli altri, ma non sa scrivere nient’altro che di sé. La meravigliosa voce di Sarah De Magistri è il rosso fra petali in bianco e nero di un bouquet di suoni persuasivi e languidi, puliti e seducenti. Suoni che si accomodano in un luogo di naufragio, di domande, e rimandano L’uomo che non hai (Dietro al curva del cuore), risposta clandestina e disarmante al silenzio che ansima dentro ad ogni passione.
Strenna della serata è una cover, è L’illogica Allegria (Crocevia, 2001) e Giorgio Gaber sembra sorridere, da una seconda fila d’eccezione. E perché il cerchio si possa chiudere lasciando davvero a parte le nostalgie, l’atto finale è Il vino (La Crus, 1995), inno alla vita balordo e sentimentale, con la saggezza a fare a pugni con il mistero dentro ad un probo bicchiere.
“Angela, Angela, angelo mio /io non credevo che questa sera / sarebbe stato davvero un addio…/Volevo farti piangere /vedere le tue lacrime /sentire che il tuo cuore /è nelle mie mani” (L. Tenco ).
Ed è lì che ho adagiato il cuore: nelle loro mani. E come me hanno fatto tanti altri. Ed un unico battito ha applaudito al loro saluto, un saluto che sarà un addio, un addio che dentro all’assenza amerà nascondere i ricordi migliori. (Lost gallery)
E’ incanto di parole questo live report. Immortala emozioni…